mercoledì 19 novembre 2014

La deontologia della Gazzetta di Massa e Carrara (GIURO CHE E' TUTTO VERO) dal blog Lipperatura di Loredana Lipperini

A.R.PA. ringrazia loredana lipperini per l'articolo uscito sul suo blog lipperatura

MERCOLEDÌ, 19 NOVEMBRE 2014

LA DEONTOLOGIA DELLA GAZZETTA DI MASSA E CARRARA (GIURO CHE E’ TUTTO VERO)

Lei è Francesca Rivieri, e mi invia una mail. Questa:
Sono responsabile comunicazione del Centro antiviolenza D.U.N.A. di Massa e, in relazione al mio ruolo, vengo contattata qualche settimana fa da un giornalista per un’intervista sul “linguaggio sessista nella pubblicità”, da pubblicare su lagazzettadimassaecarrara.it.
Accetto l’intervista ben contenta di poter trattare di un tema così importante sul quale stiamo organizzando, come Centro Antiviolenza, un workshop dedicato, aperto, per l’appunto, ai giornalisti.
Realizzo così l’intervista rispondendo a tutte le domande del giornalista, lui si dichiara soddisfatto e mi indica che appena il pezzo sarà pubblicato me ne darà notizia.
Oggi, casualmente, entro sul sito web lagazzettadimassaecarrara.it e leggo nella Home Page il seguente titolo: “Per Francesca Rivieri in Italia non esiste parità fra uomo e donna: che vada a fare una gita-premio nel califfato dell’Isis così si accorge della differenza…” col seguente catenaccio: “La dottoressa Francesca Rivieri accusa la società italiana di essere maschilista e sessista. Alla parola ministro preferisce minestra, pardon ministra e viene a predicarci come si deve fare informazione. Se lo faccia da sé, allora, un giornale”.
Cliccando su questi si arriva alla pagina dell’articolo, dove sotto questo titolo quantomeno inopportuno ed inappropriato si vede una foto (che io non avevo fornito) che mostra una donna seviziata in una lapidazione (ora rimossa e sostituita).
L’articolo riporta esattamente l’intervista realizzata dal giornalista e quindi risulta al lettore completamente estranea al titolo e alla foto. Ma entrambi diventano comprensibili scorrendo al termine dell’intervista, quando compare un commento, integrato nell’articolo, a firma del Direttore di lagazzettadimassaecarrara.it, tale Aldo Grandi.Il commento si presenta come una sorta di “contraddittorio” verso l’intervista, ma in realtà si rivela da subito un attacco profondo alla mia persona, alla mia professionalità e alle donne.
Si leggono passaggi come
“La dottoressa Rivieri vorrebbe trasformare la società indipendentemente da quelli che sono i suoi protagonisti, vorrebbe cambiare le regole del gioco senza capire che quello che viviamo quotidianamente è tutt’altro che un gioco.”
oppure
“Siamo tutti d’accordo sul fatto che chi usa violenza non solo verso la donna, ma verso tutti coloro che sono diversi …”
(diversi???)
E poi
“E lei, adesso, pretende di venire ad insegnare a noi come si fa informazione corretta, addirittura organizzando corsi? Ma lasci perdere e lasci, soprattutto, fare il mestiere di giornalista a chi ha gli attributi per metterci sempre la faccia”
(attributi??)
per concludere con
“Chi scrive non ritiene di dover frequentare alcun corso per imparare a fare informazione corretta usando i vocaboli che voi e tutti quelli che si inventano carte o cartine, vorrebbero imporre a chi, questo mestiere, se lo è guadagnato e sudato”
(per carte e cartine intende forse l’Accademia della Crusca??)
Le chiederei la cortesia di raccontare questa storia per mostrare a che punto siamo arrivati in questo paese, quando si tratta di “comunicazione di genere”. Sono stata contattata come esperta, per vedermi poi attaccata nel titolo stesso dell’articolo, in un modo così frontale e denigrante.
Alla mia richiesta di spiegazioni e rettifiche, il sig. Grandi si è mostrato completamente sordo, sostenendo che “posso sempre querelarlo”.
A prescindere da questa od altre soluzioni, mi premeva rendere questa storia, di cui sono stata ahimé protagonista, uno strumento al servizio della battaglia che quotidianamente portiamo avanti come donne impegnate nell’antiviolenza”.
Detto fatto. Ogni commento sulla deontologia professionale (non sulla sensibilità verso le tematiche di genere, ribadisco: deontologia professionale) è superfluo.
Per chi volesse, ordine dei giornalisti incluso, questo è il link all’articolo. E dal momento che il web è volatile, lo copio e incollo qui sotto. Incluso lo strepitoso titolo originale.
LA GAZZETTA DI MASSA E CARRARA
giovedì, 13 novembre 2014, 23:52.
Per Francesca Rivieri in Italia non esiste parità fra uomo e donna: che vada a fare una gita-premio nel califfato dell’Isis così si accorge della differenza..
E’ una delle tematiche che, spesso e volentieri, emergono, forti e preponderanti nel linguaggio della comunicazione in tutti i suoi aspetti: il linguaggio sessista si impone nella società attuale come uno degli scogli maggiormente da superare. La politica, ma tutta la comunicazione in generale chiede un ragionamento sul perché un certo tipo di lessico permanga ancora oggi, nonostante l asocietà si evolva. Francesca Rivieri è responsabile comunicazione e operatrice per il Centro Antiviolenza D.U.N.A. (Donne Unite nell’Antiviolenza) di Massa gestito dall’associazione Arpa ed è anche formatrice nelle scuole medie e superiori della Toscana. Laureata in scienze della comunicazione, da sempre focalizza il proprio interesse di lavoro ed umano sugli aspetti sessisti della comunicazione.
Dottoressa Rivieri, partiamo da un esempio: dire ministro ad una donna, oggi, non solo è sbagliato, ma cela profonde verità e atavici pregiudizi verso l’altro sesso? Cosa ci può dire al riguardo?
Dire “ministro” ad una donna è sbagliato su più livelli. Il primo è quello grammaticale: ministro è singolare maschile mentre, se mi riferisco ad una donna, dovrei chiamarla con il singolare femminile, che esiste nella lingua italiana e deriva dal latino, ovvero ministra. Ma l’errore grammaticale è sintomo di un problema più profondo e radicato nel maschilismo imperante nella nostra società che ci impedisce, fino a farci dubitare della grammatica stessa, di chiamare le donne, soprattutto se in posizione di potere, con il femminile che appartiene al loro genere. Questo accade, a mio parere, perchè non siamo abituati ad attribuire il giusto peso alle donne nella società e non vogliamo in realtà dare pari dignità di ruolo ad entrambi i generi: donne e uomini. E’ una questione esclusivamente culturale. In Italia non c’è parità uomo-donna in nessun ambito e il linguaggio ne è un esempio palese. La stessa Accademia della Crusca si è espressa in merito non solo confermando l’uso delle forme femminili (quali ministra, avvocata, prefetta, ecc.), ma confermando come la resistenza a tale uso sia culturale e non linguistica, dato che è dimostrabile come più alta è la carica da definire e meno viene declinata al femminile, si pensi in questi giorni alla notizia della nuova direttrice del CERN di Ginevra e come tutti i giornali abbiano titolato DIRETTORE al maschile. Non sarebbe mai successo se fosse stata una infermiera o maestra.
Quali sono i motivi per cui è cosi difficile superare talune barriere linguistiche e mentali del linguaggio? In fondo si tratterebbe solo di modificare una desinenza finale. Non è così difficile.
Magari si trattasse solo di modificare una desinenza finale! Le faccio un esempio: se siamo in presenza di un gruppo misto uomini-donne, dove gli uomini sono in maggioranza ci rivolgiamo agli appartenenti con il maschile (es. “Siamo andati”). Se un gruppo misto è composto da un numero maggiore di donne rispetto a quello degli uomini continuiamo a rivolgerci agli/alle appartenenti al maschile. Secondo la logica dovremmo parlare al femminile (esempio: Siamo andate), no? Allora perchè abbiamo tutte queste resistenze? Perchè ci hanno abituato ad usare il maschile come un neutro anche se non è così e questo è puramente culturale, le donne vengono nascoste “dentro” il genere grammaticale maschile,  quindi, finchè non cambieremo la cultura a partire proprio dal linguaggio, non evolveremo mai in una direzione di parità uomo/donna.
Nella sua esperienza a giro per le scuole quali sono gli aspetti che per lo più lei ha riscontrato come una costante nell’abbattere il muro del pregiudizio e quali le motivazioni più frequenti fornite?
La cosa più difficile da scardinare tra le ragazze ed i ragazzi anche giovanissimi/e sono i ruoli e le relazioni uomo/donna. La donna è quella che fa i figli e sta a casa e l’uomo è quello che lavora e mantiene la famiglia. Uno stereotipo assolutamente illusorio, ma molto radicato, così come che esistano “lavori da donne” e “lavori da uomini”. Grande responsabilità in questo è dei mezzi di comunicazione di massa e in particolare della televisione che, fin da piccoli/e, ci abitua a dei modelli uomo/donna assolutamente falsi e preconfezionati. Con i/le giovani spesso lavoriamo sulle pubblicità dei giochi per bambini, che sono un chiaro esempio di come fin da bambine e bambini ci insegnino quale sia il “nostro posto”: accudire casa, marito e figli per le bambine, lavorare e sperimentare situazioni avventurose per i bambini.
Linguaggio e mass media: quanto influiscono i mezzi di informazione nella diffusione di un certo tipo di lemmi e di vocaboli ed in che misura costituiscono parte del linguaggio sessista attuale?
Come accennato precedentemente i mezzi di comunicazione di massa hanno una grossa responsabilità, perchè entrano nelle nostre case in molteplici forme (radio, tv, internet, pubblicità sulla carta stampata ecc.) e non siamo preparati/ea ricevere e analizzare tutti quei messaggi. La pubblicità spesso è esplicitamente violenta verso le donne che sono trattate come oggetti (spesso sessuali) di uomini che hanno la possibilità di disporne come vogliono. Il corpo della donna, come dice Lorella Zanardo, diventa un oggetto di cui poter disporre come si vuole. Spesso il corpo della donna è mostrato senza testa (la parte pensante) e viene “venduto” in pezzi, proprio quei “pezzi” preferiti, nell’immaginario comune, dagli uomini. La cosa più sconcertante è che ormai siamo talmente abituati/e a questo che anche i prodotti femminili vengono venduti facendo uso del corpo femminile per attirare l’attenzione. (vedi foto allegate)
Spesso, l’espressione “omicidio passionale” è stra-abusata dai redattori e dai giornalisti. Secondo lei, se ne fa un uso corretto oppure no? Quali altri esempi di locuzioni simili?
Io partirei dalla definizione di femminicidio. Il femminicidio, come cita il Devoto-Oli è “Qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuare la subordinazione e di annientare l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte” . Tutto questo non ha a che fare con la passione o con la gelosia, altro termine che piace molto ai giornalisti. Ogni volta che sui media si etichetta un femminicio con la defiinizione “omicidio passionale” si uccide la vittima per la seconda volta. Lo so che può sembrare un’esagerazione quello che dico, ma credo che i giornalisti e le giornaliste abbiano una grande responsabilità, proprio perchè hanno la possibilità di parlare potenzialmente a migliaia di persone. Spesso la vittima passa in secondo piano e si mette l’accento sul fatto che l’assassino “era un buon padre” oppure “era appena stato licenziato” o frasi simili, quasi a giustificare il suo gesto che non è mai un raptus (statisticamente sono pochissimi), ma un’azione voluta e premeditata spesso perchè quella donna cercava di liberarsi dalla morsa della violenza o della sopraffazione.
Ad inizio anno partiranno a Massa interessanti work-shop dedicati, tra gli altri, al metodo ed al mondo del linguaggio: la partecipazione, aperta al pubblico, specialmente a chi lavora per le testate di informazione. Ci spieghi come sarà organizzato.
I work-shop saranno quattro e si terranno tra marzo e aprile 2015, il primo volto ad abbattere e riconoscere gli stereotipi sessisti nella comunicazione/informazione, il secondo sul tema della violenza di genere e gli stereotipi razziali, il servizio di mediazione linguistica e culturale del centro D.U.N.A., il terzo sui diritti LGBT per favorire una vera cultura di genere antidiscriminatoria e l’ultimo sul tema donne e benessere psicofisico, che affronterà nuove metodologie per migliorarsi , conoscersi ed imparare a rispettarsi e volersi bene.
Questi workshop si svolgeranno al termine del corso di secondo livello G.eA.- Genere ed Antiviolenza- che inizierà a gennaio 2015. Il corso, dedicato alle operatrici già attive al Centro Antiviolenza, è finanziato dalla Regione Toscana poichè l’Associazione A.R.PA. ha vinto, per il secondo anno consecutivo, il bando regionale art. 6 della L.R. 16/2009 Cittadinanza di genere. Il corso vedrà impegnate docenti provenienti da tutta Italia dai centri Antiviolenza facente parte della rete TOSCA e D.I.R.E (rete dei centri antiviolenza regionale e nazionale).
Il workshop che terrò io a marzo 2015 verterà appunto sui temi del linguaggio sessista sia nella pubblicità che sui mezzi di informazione. E’ per questo motivo che auspico la partecipazione di diversi giornalisti e giornaliste locali, così da poterci confrontare su una tematica spinosa che deve iniziare ad essere affrontata in modo serio e approfondito.
Cosa potere fare, a livello divulgativo e pedagogico per arrivare a superare definitivamente il sessismo della nostra lingua quotidiana?
La nostra Associazione lavora da anni nelle scuole proprio perchè pensiamo sia necessario partire dalle nuove generazioni per cercare di cambiare mentalità. Lavoriamo sul campo proprio per andare ad analizzare, scardinare e smontare gli stereotipi di genere radicati a livello culturale.  Abbiamo progetti specifici sia sul linguaggio di genere nella comunicazione pubblicitaria e nei mezzi di informazione sia sulla violenza, e le sue varie declinazioni, sia sul funzionamento dei Centri Antiviolenza ed in particolare del nostro che è ormai attivo da circa un anno ed ha accolto al momento una cinquantina di donne vittime di violenza. In parallelo lavoriamo con le Forze dell’Ordine, le assistenti sociali, gli operatori e le operatrici del SERT di Massa e di Carrara, con i Medici e tutti i soggetti che in un modo o nell’altro si trovano a collaborare con noi sulle tematiche della violenza di genere.  Siamo disponibili ed aperte al dialogo con tutti i soggetti interessati all’argomento e che decidano di lavorare con noi per scardinare stereotipi e pregiudizi.
Commento di Aldo Grandi: Pubblichiamo questa intervista perché, a differenza di tanti che darebbero voce solo a chi la pensa come loro, noi crediamo che tutti abbiano il diritto di dire la propria. Così come esiste il diritto di dissentire. La dottoressa Rivieri vorrebbe trasformare la società indipendentemente da quelli che sono i suoi protagonisti, vorrebbe cambiare le regole del gioco senza capire che quello che viviamo quotidianamente è tutt’altro che un gioco. Siamo tutti d’accordo sul fatto che chi usa violenza non solo verso la donna, ma verso tutti coloro che sono diversi, debba essere punito in maniera esemplare e non, ad avviso di chi scrive, con la semplice detenzione in carcere. Ma l’omicidio di una donna è pur sempre un omicidio e l’assassino, a nostro avviso, meriterebbe solo una cosa: la pena di morte. Così non è, ma non è cambiando vocabolario o imponendo a colpi di decreti l’uso di parole diverse e lontane anni luce dalla nostra storia e dalla nostra lingua oltreché da usi e consuetudini, che si ottiene maggiore rispetto per l’universo femminile.
Invece di guardare solo in casa nostra, forse la dottoressa Rivieri farebbe bene a guardare anche in casa d’altri e nella casa degli altri che sta in casa nostra: 150 mila musulmani sono sbarcati nelle nostre regioni e non mi risulta che lei o altre paladine dei diritti della donna si siano sbracciate per protestare contro chi, la donna, considera poco meno che una pertinenza. E lei, adesso, pretende di venire ad insegnare a noi come si fa informazione corretta, addirittura organizzando corsi? Ma lasci perdere e lasci, soprattutto, fare il mestiere di giornalista a chi ha gli attributi per metterci sempre la faccia, davanti all’arroganza del potere, destra o sinistra non importa, davanti all’idiozia e all’inezia di chi vorrebbe governarci e non ne ha nemmeno la capacità.
Siamo stanchi di sentirci definire maschilisti solo e soltanto perché riteniamo che uomo e donna siano due esseri diversi tra loro che cercano di incontrarsi e si innamorano, fortunatamente e fino a quando la vita avrà un senso e una ragione. Se qualcuno usa violenza a una donna, ebbene, che lo si punisca in maniera determinata e determinante, lasciando da parte i discorsi da aula universitaria e badando più alla concretezza. Chi scrive non ritiene di dover frequentare alcun corso per imparare a fare informazione corretta usando i vocaboli che voi e tutti quelli che si inventano carte o cartine, vorrebbero imporre a chi, questo mestiere, se lo è guadagnato e sudato, mangiando pane e merda negli anni in cui non aveva alternative e in un’epoca in cui il pensiero dilagante è colorato di rosso.
Quanto alla parità tra uomo e donna, forse la dottoressa Rivieri desidererebbe recarsi nei paesi del Nord Europa, a suo avviso più liberi del nostro, ma vorrei ricordarle, tanto per parlare di violenza e comunicazione, che a Amburgo come ad Amsterdam come a Copenaghen e via dicendo, le donne vengono sbattute, con il loro consenso, dietro una vetrina a fare le prostitute, ma nessuno si è mai sognato di contestare questi paesi definendoli maschilisti. Forse sarà il caso, glielo dico provocatoriamente, che anche da noi si arrivi a costruire i famosi quartieri del sesso a pagamento?