venerdì 28 novembre 2014

#GiornalismoDifferente: una campagna per cambiare linguaggio

A.R.PA. aderisce alla campagna per cambiare il linguaggio sessista e retrogrado dell'informazione #giornalismodifferente lanciata da Narrazioni Differenti
E' tempo di pretendere Giornalismo Differente e noi lo sappiamo bene (leggi qui)
Questo il manifesto della campagna



Il giornalismo italiano sembra completamente sordo ai progressi della società in fatto di questione di genere e, infatti, continua a utilizzare un linguaggio, delle immagini e un immaginario retrogrado, violento e discriminante.
E’ tempo di pretendere un cambiamento.
E’ tempo di pretendere che il giornalismo italiano si metta al passo coi cambiamenti della società, della realtà, che rappresenti il meglio di questa e superi i retaggi della cultura patriarcale, maschilista e omo-transfobica.
E’ tempo di pretendere un Giornalismo Differente, perché del valore di informare rimanga anche quello di innovare.
giornalismo differente
La realtà dipende dalle sue rappresentazioni.
Di pari passo vanno le modifiche di una e delle altre, a specchio.
Ma se la realtà inizia a usare vocaboli, idee, immaginari che non trovano mai una rappresentazione massiccia, lo scollamento è inevitabile.
Solo da poco il giornalismo ha introdotto il termine femminicidio nel proprio vocabolario.
Un passaggio fondamentale per ripristinare una rappresentazione che rispondesse alla realtà: donne uccise in quanto donne.
Eppure a questo non è seguito un miglioramento complessivo del linguaggio o dell’approccio giornalistico al genere, soprattutto per quello che riguarda i giornalisti di cronaca –cronaca nera in particolare.
E’ tempo di suggerire quindi al giornalismo italiano, tutto, alcune semplici regole di linguaggio e approccio, che nel 2014 sarebbe proprio il caso di applicare.
Oggi è il 25 novembre, Giornata internazionale della lotta alla violenza sulle donne.
Abbiamo deciso di lanciare oggi questa campagna perché crediamo che il linguaggio mediatico comunichi la cultura che ci rispecchia,  consolidando la nostra visione del mondo e che, per questo, il giornalismo italiano debba cambiare, migliorare, evolvere.
Diffondiamo per questo un manifesto che speriamo incontri la vostra condivisione e un video per aiutare a rilevare alcune delle nostre principali rivendicazioni.
Chiediamo un Giornalismo Differente, lo facciamo lanciando un hashtag #giornalismodifferente e delle prime rivendicazioni:

1. Un femminicidio non è colpa della disoccupazione / della depressione / della passione.
La violenza sulle donne è sempre esistita, con o senza crisi economica.
Un uomo non picchia, umilia o uccide una donna perchè è rimasto disoccupato. Lo fa perchè la sua cultura lo autorizza a sentirsi superiore alle donne, a sentirsi padrone delle loro vite, a dominarle psicologicamente e fisicamente. Anche le donne rimangono disoccupate ed entrano in depressione, anche le donne, anzi soprattutto le donne, soffrono la crisi dentro e fuori casa, ma per un uomo queste diventano possibile “giustificazioni” ad un femminicidio, autorizzato invece dalla sua cultura patriarcale.
Quella stessa cultura che insegna alle donne a subire passivamente in nome dell’accoglienza e la mitezza  per cui è programmata.
Ecco tre esempi tratti da Corriere della Sera, AGI – agenzia giornalistica Italia, e Repubblica.it
disoccupato
agi
depressione
2. Non è il raptus che uccide!
Allo stesso modo, il raptus è un alibi che il giornalismo fornisce a chi uccide la propria compagna, moglie, fidanzata, amica.
La violenza sulle donne è un fenomeno strutturale. Ha radici profonde e non può essere ricondotta a un momento di violenza improvviso. Piuttosto, si tratta di anni di piccole avvisaglie, di atteggiamenti psicologicamente o fisicamente violenti, di affermazione di cultura maschilista, o spesso di stalking e intimidazioni che sfociano in maniera assolutamente premeditata nell’uccisione della donna che si è sottratta al possesso patriarcale.
In questo articolo ad esempio, Repubblica usa il termine raptus, per poi specificare però che i due avevano spesso litigi violenti.
raptus
3. No alle pornovittime!
Una donna rimane un oggetto sessuale anche da morta. Così non mancano gli esempi di vittime di femminicidio o di violenza sessuale, anche giovanissime –ritratte spesso dai giornali anche in bikini–, sottolineandone l’avvenenza.
Come se da quella dipendesse la sorte di una violenza, di un’aggressione.
Se poi la donna uccisa è una donna famosa anche per la sua avvenenza, non le si risparmiano gallery su gallery della sua immagineammiccante, anche da morta. Pensiamo ad esempio allo sciacallaggio mediatico su Reeva Steenkamp, la donna uccisa dal campione paraolimpico Pistorius.
Anche le foto di repertorio scelte dai giornali per parlare di violenza sessuale e femminicidio rimandano spesso a un immaginario sessualizzato: minigonne cortissime, calze autoreggenti, magliette scollate. E poi pose rannicchiate nel buio, mani sulla faccia. Come se la vergogna fosse la loro e non quella di chi le ha aggredite.
Porno + vittimizzazione, un pessimo risultato.
Le immagini che seguono sono alcune tra le più utilizzate dai giornali quando si parla di stupro, rintracciabili dai free press come Leggo fino a Il Messaggero.
pornovittima

pornovittima2

4. Cosa indossa una vittima di violenza? Chissenefrega!
Più chiare di così non si poteva essere. Ancora oggi spesso i giornalisti specificano oltre all’aspetto fisico anche l’abbigliamento di una vittima di violenza di genere. Perchè? A cosa serve dirci che indossava una minigonna? O che era bella? A nulla.
Perchè la violenza è trasversale e non colpisce solo donne avvenenti o vestite in modo succinto.
Anzi, perlopiù avviene dentro le mura domestiche, in famiglia, dove davvero nulla importa come si è vestite.
Se la vittima di una violenza sessuale di qualsiasi tipo è una donna avvenente si susseguono nell’articolo le sue immagini, persino in bikini, per attirare lettori, altrimenti si allude al suo aspetto e al suo abbigliamento, se si tratta di una sex worker, anche al suo lavoro ovviamente, nel quadro di un generale slut shaming, ovvero di una colpevolizzazione costante delle donne.
Così la notizia di una donna molestata sessualmente diventa “giustificata” da come quella, per di più ballerina di un night, andava vestita, nell’articolo di Treviso Today.
lap dance
5. Il capofamiglia non esiste più!
Il capofamiglia. Una parola usata molto spesso dal giornalismo italiano, ma che ci riporta indietro a quando l’Italia rispettava ancora la norma contenuta nell’art. 144 del Codice civile, che prevedeva il ruolo di capofamiglia e lo attribuiva al marito, abrogata poi dalla legge 19 maggio 1975, n. 151 con la Riforma del diritto di Famiglia.
Il capofamiglia non esiste più da 40 anni, ma il giornalismo italiano continua a usare questa espressione.
Come continua a usare la giustificazione dell’onore e della gelosia maschile per parlare di violenza, riportandoci a un’altra pietra miliare del nostro diritto, il delitto d’onore, abrogato solo nel 1981.
Questi retaggi maschilisti, seppur eliminati dal diritto ufficiale, persistono nel linguaggio giornalistico, tradendo la sostanziale adesione a un modello culturale da cui sarebbe anche tempo di affrancarsi.
Ancora Repubblica.it ci fornisce un esempio dell’uso improprio di “capofamiglia”, (in questo articolo) che viene usato per intendere l’uomo del nucleo familiare dove, tra l’altro, era invece la donna a provvedere al mantenimento della famiglia.
capofamiglia
6. unA transessuale, al femminile
Alla condizione femminile, non può non essere associato il trattamento linguistico-mediatico riservato anche a persone LGBTQI, soprattutto per quel che riguarda LE transessuali, relegate tanto alla macchietta che a cui i media le condannano da non meritare nemmeno l’articolo femminile.
Una piccolezza, risponderà il/la giornalista dalla sua scrivania.
Invece no. Perché il genere maschile e femminile non sono solo acquisizioni basate sul sesso biologico, ma anche faticose conquiste identitarie. E ciò va rispettato.
Il transessualismo indica l’esperienza vissuta da tutte quelle persone che non sentono di appartenere al sesso biologico acquisito con la nascita e che, quindi, intraprendono un percorso di adattamento del proprio fisico alla percezione psicologica ed emozionale che hanno di sé. Dunque se quella persona ha scelto di appartenere al sesso e al genere femminile,i media dovrebbero evitare di rimetterle addosso un’etichetta maschile ( e viceversa ), allo stesso modo in cui la società, tutta, dovrebbe acquisire la capacità di relazionarsi alle persone in base alle scelte che compiono e non ai ruoli precostituiti che si vogliono imporre loro.
Così, anche il Corriere della Sera, che è solo uno dei giornali indecisi sul genere da attribuire a persone transgender, in questo articolo sulla morte di Brenda, trans tristemente nota per il suo coinvolgimento nello “scandalo” Marrazzo, alterna il maschile al femminile.
brenda
7. Vogliamo parlare di donne vive ( e fuori dai ghetti rosa )?
Più in generale, il giornalismo tende a narrare e rappresentare le donne solo come vittime di violenza. Affollano le pagine dei quotidiani e le schermate dei pc tutte le donne stuprate, uccise, aggredite, sfgurate. Di donne forti, uscite dalle difficoltà, capaci di reagire o che propongono un immaginario differente da quello descritto finora non c’è quasi traccia.

COME ADERIRE A #GIORNALISMODIFFERENTE
Per aderire alla campagna inviateci la vostra adesione, singola o collettiva a narrazionidifferenti@gmail.com
Questo manifesto per il Giornalismo Differente, con tutte le sue adesioni, sarà inviato all’attenzione delle principali testate nazionali.
Diffondete l’hashtag #giornalismodifferente su Twitter unito alle nostre e alle vostre rivendicazioni, taggando le principali testate italiane.

#giornalismodifferente Un femminicidio non è colpa della disoccupazione!
                                Non è il raptus che uccide!
                                No alle pornovittime!
                                Cosa indossa una vittima di violenza? Chissenefrega!
                                Il capofamiglia non esiste più!
                                UnA trans, al femminile!
Fuori dai ghetti rosa!

Comunicato della Presidente della Commissione Regionale Pari Opportunità della Toscana


La Presidente della Commissione regionale Pari Opportunità della Toscana, Rossella Pettinati, ha inviato a noi e alla stampa regionale questo comunicato in solidarietà ai fatti accaduti alla nostra responsabile della comunicazione Centro Antiviolenza D.U.N.A., Francesca Rivieri, firmato anche dal Presidente della Commissione Donna per le Pari Opportunità del Comune di Carrara, Alessandro Bandoni. 

A.R.PA. ringraziando entrambe lo pubblica con grande piacere.

Pochi giorni fa una rivista on-line di Massa Carrara decide di intervistare la responsabile comunicazione del locale Centro Antiviolenza D.U.N.A, l’oggetto è “il linguaggio sessista nella pubblicità”. L’intervistata è la dott.ssa Francesca Rivieri, responsabile comunicazione e operatrice di Donne Unite nell'Antiviolenza di Massa ed è anche formatrice nelle scuole medie e superiori della Toscana.
L’intervista viene pubblicata con il seguente titolo: “Per Francesca Rivieri in Italia non esiste parità tra uomo e donna: che vada a fare una gita-premio nel califfato dell’Isis così si accorge della differenza…”.
Un titolo che non si comprenderebbe se non scorrendo il commento del direttore della rivista che chiude il pezzo.  In pratica una farneticazione tesa a mettere in ridicolo l’intervistata in relazione ai concetti  espressi, utilizzando un tono particolarmente aggressivo e violento. Più di tutto al direttore “brucia” che la dottoressa Rivieri abbia potuto adombrare l’opportunità che sul tema si possano, magari, fare attività di formazione rivolte proprio a coloro che la comunicazione la fanno, appunto i giornalisti.
“La dottoressa Francesca Rivieri accusa la società italiana di essere maschilista e sessista. Alla parola ministro preferisce minestra, pardon ministra e viene a predicarci come si deve fare informazione. Se lo faccia da sé, allora, un giornale”. Ed ancora  “E lei, adesso, pretende di venire ad insegnare a noi come si fa informazione corretta, addirittura organizzando corsi? Ma lasci perdere e lasci, soprattutto, fare il mestiere di giornalista a chi ha gli attributi per metterci sempre la faccia”… Per non citare che alcune perle!
L’atteggiamento del direttore in questione è sicuramente un caso isolato, almeno in quanto a violenza verbale. Un comportamento comunque che riteniamo debba essere condannato e per quanto possibile contrastato.
Mentre esprimiamo a Francesca tutta la nostra solidarietà, abbiamo ritenuto di segnalare l’accaduto all’ordine dei giornalisti cui il direttore è iscritto. Non ci pare si debbano far passare sotto silenzio comportamenti così scorretti e gravi.
Vogliamo rivolgerci a chi si occupa di informazione proprio perché i messaggi sono importanti. Il dominio culturale di media, spesso non attenti alla dignità delle donne, contribuisce pericolosamente a creare uno stereotipo di donna lontana dalla realtà, una immagine del femminile che, spacciata per spregiudicata e libera, offende il principio elementare del rispetto e nasconde la crescita professionale, civile e culturale delle donne. C’è qualcosa che non va nello scarto che avvertiamo tra il valore di milioni di donne italiane e la “credibilità” di un paese che esprime tanta arretratezza in materia di rispetto dei diritti della persona.
Un’informazione corretta e responsabile può contribuire a formare una coscienza civile e una cultura dove prevalga il rispetto reciproco, la consapevolezza che al fondo della violenza contro le donne c’è sempre un modello di rapporto che presuppone la prevaricazione di uno nei confronti dell’altra.
Insomma l’esatto contrario di quello che, di fatto, è contenuto nel commento all’intervista e nel titolo del pezzo.
In questi giorni sono numerose le iniziative di enti e associazioni per ricordare la giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Il nostro paese ha da poco ratificato la convenzione di Istanbul, approvato una legge, la 119/2013, che introduce importanti novità di carattere giuridico e stanzia fondi a sostegno dei centri antiviolenza. La legge inoltre rimanda ad un piano straordinario d’intervento, ad oggi non approvato, un complesso di azioni di prevenzione e contrasto, tra queste le azioni formative, rivolte a diversi soggetti (forze di polizia, personale sanitario, strutture giuridiche), assumono un particolare valore.
Tra marzo ed aprile 2015 il centro D.U.N.A terrà a Massa alcuni workshop finalizzati ad abbattere e riconoscere gli stereotipi sessisti nella comunicazione e nell’informazione. L’iniziativa è aperta a tutti, ed è auspicabile che vi  partecipino anche operatori dell’informazione locale.
Ancora più rilevante sarebbe che fossero gli stessi organismi di governo della categoria a farsi promotori di simili iniziative. Perché no? Perché non prevedere davvero nell’ambito delle iniziative di aggiornamento della categoria momenti di approfondimento sul tema, non solo per capire che Ministra è esattamente corretto come Ministro, ma soprattutto per chiedersi se quando si scrive di donne non si stia scivolando, magari in buona fede, nel più banale  e diffuso stereotipo, e per evitare di raccontare le storie di violenza come storie di “amore malato” o ancora come una questione che riguarda “solo le donne”.
Noi riteniamo ce ne sia estremo bisogno. Sarebbe un buon modo per celebrare questo 25 novembre.
Rossella Pettinati 
PRESIDENTE COMMISSIONE PARI OPPORTUNITÀ della Regione Toscana
Alessandro Bandoni
PRESIDENTE COMMISSIONE DONNA PER LE PARI OPPORTUNITÀ del Comune di Carrara
Rassegna stampa:


martedì 25 novembre 2014

#25Novembre per noi è ogni singolo giorno dell'anno





Massa, 25 novembre 2014 - In occasione della Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne, l'Associazione A.R.PA.-Associazione Raggiungimento Parità, vuole sottolineare l'importanza del suo lavoro svolto al  Centro Antiviolenza D.U.N.A.-Donne Unite Nell'Antiviolenza.

Perchè per noi il 25 Novembre è ogni singolo giorno dell'anno? Facciamo mediamente due colloqui al giorno, abbiamo ricevuto al numero H24 137 telefonate ed oggi abbiamo in carico 53 donne provenienti da tutto il territorio provinciale ed extra provinciale, a cui prestiamo in maniera del tutto volontaria i seguenti servizi gratuiti: AccoglienzaAscolto telefonico h 24Colloqui su appuntamentoSostegno nel percorso di fuoriuscita dalla violenzaAssistenza legaleConsulenza legale: civile, penale, minorileConsulenza psicologicaGruppi CAM (Conoscersi Attraverso il Movimento)- Metodo FeldenkraisGruppi di auto-mutuo aiutoMediazione linguisticaSportello antistalking. Facciamo inoltre attività di prevenzione e sensibilizzazione, orientamento e accompagnamento al lavoro, attività di rete, raccolta ed elaborazione dati, raccolta di materiale in tema di violenza, raccolta abiti usati per donne e minori di tutte le età. Lavoriamo in sinergia con Forze dell'Ordine, assistenza sociale, pronto soccorso, scuole e ad anno nuovo faremo ingresso formale nella rete regionale dei Centri Antiviolenza TOSCA con cui già collaboriamo attivamente.

Perchè è fondamentale il lavoro del Centro Antiviolenza D.U.N.A.?
Il Centro assicura protezione e sicurezza, empowerment e cambiamento sociale. È un luogo di donne per le donne perché una donna che ha subito una violenza da un uomo, nel momento in cui chiede aiuto, interpella nell’altra una rappresentazione di se stessa. Il concetto di violenza contro le donne ha a che fare con le relazioni di coppia, con le rappresentazioni sociali dei rapporti di genere e con la disparità di potere tra uomini e donne. Quindi affrontare il problema della violenza sulle donne diventa legittimo solo in un contesto che mette in discussione e parte dalla subordinazione, sociale e culturale, all’uomo.
L’intervento è di carattere relazionale o psico-sociale, non terapeutico in senso tecnico e consiste in un percorso di colloqui a cadenza periodica e di durata variabile, finalizzato al raggiungimento di obiettivi stabiliti con la donna, secondo tappe concordate. Ci si basa sul rafforzamento (empowerment) dell'identità della donna, fondamentale per autodeterminarsi, e sulla relazione tra donne che noi preferiamo chiamare „sopravvissute“ e non „vittime“. Per questo ci si avvale di personale esclusivamente femminile e specializzato sul tema. È solo attraverso la relazione fra donne che si può innescare un processo virtuoso di reciproco riconoscimento e sostegno. Alle donne non vengono offerte soluzioni precostituite, ma un sostegno specifico e informazioni adeguate, affinché possano trovare la soluzione adatta a sé e alla propria situazione così da poter costruire autonomamente il proprio percorso di uscita dalla violenza. Fondamentali sono i servizi di reperibilità H24 e la seria valutazione del rischio attuata attraverso strumenti riconosciuti a livello europeo.
Qual'è la tipologia di violenza che più colpisce queste donne? La violenza domestica è la forma di violenza più diffusa, gli atti sono per la maggior parte dei casi gravi, una parte delle donne, prima di rivolgersi al centro D.U.N.A., non considerava la violenza domestica un reato e alcune lo accettavano come un fatto comune. È quindi piuttosto facile capire come la violenza nella sfera privata rimanga spesso in gran parte invisibile e sotto denunciata.
Tipologie di violenza:
  • psicologica – 24
  • fisica – 27
  • economica – 14
  • sessuale – 6
  • stalking- 14
  • altro – 10
Da considerare che diverse donne subiscono contemporaneamente più di una tipologia di violenza.

Chi sono le donne che si rivolgono al centro? Nel 97% dei casi si tratta di donne che hanno subito violenza in famiglia dal proprio partner o ex, e sono donne che hanno subito violenza fisica, psicologica, economica, sessuale e/o stalking. Provengono da tutte le classi sociali e con differenti livelli di istruzione molte non hanno lavoro, mentre altre lo avevano ma sono state costrette a lasciarlo perché il proprio partner non permetteva loro di andarci. Tuttavia c’è da chiarire una volta per tutte che anche l’indipendenza economica delle donne non costituisce una garanzia di libertà dalla violenza, vi sono meccanismi psicologici e culturali complessi per cui una donna rimane con il partner violento.

Chi è il maltrattante? Il maltrattante è un uomo normale, con una vita sociale e relazionale normale, nel 99% dei casi con un lavoro. L’uomo violento per sfuggire alle proprie responsabilità e mantenere il controllo sulla donna, tenta con qualunque mezzo di favorire il suo silenzio ma se non riesce ad ottenerlo attacca la credibilità della stessa: è pazza, non è vero, si è inventata tutto, mi vuole rovinare perché le ho detto che non la amo più, e simili.

Chi sono le operatrici del Centro D.U.N.A.? Abbiamo 27 figure professionali esperte in accoglienza, ascolto telefonico, assistenza legale e tutela minori, ascolto e approccio socio-culturale di genere, antropologia di genere, politiche del lavoro e valutazione delle competenze, counselor, psicologhe, psicoterapeute, educatrici e pedagogiste, esperta in fisioterapia, esperte in comunicazione di genere, progettazione e mediatrici interculturali e linguistiche.

Quali le attività di prevenzione e formazione? Svolgiamo da anni attività di formazione nelle scuole del territorio e abbiamo vinto per il secondo anno consecutivo, il bando regionale di cui all’articolo 6 della l.r. 16/2009 (Cittadinanza di genere), con il progetto G.eA.- Genere E Antiviolenza, con cui daremo continuità al percorso intrapreso con il laboratorio antiviolenza M.E.L.A. Il corso inizierà a fine gennaio e realizzeremo interventi formativi di secondo livello per rafforzare le competenze delle operatrici, formarne di nuove e grazie a quattro workshop tematici che coinvolgeranno tutta la cittadinanza , vogliamo diffondere una cultura di genere, antisessista, antidiscriminatoria e della non violenza, perché tutte e tutti possano essere messi nella condizione di accrescere le proprie conoscenze e superare barriere mentali imposte da una cultura distorta.

mercoledì 19 novembre 2014

Una giornata di riflessioni su PAROLE TOSSICHE e dintorni


Oggi siamo intervenute al convegno PAROLE TOSSICHE organizzato dalla Rete di Donne per la Politica di Genova.

Ringraziamo la giornalista Monica Lanfranco e le donne della Rete di Genova per la bellissima opportunità che ci hanno dato e soprattutto per l'aver organizzato un convegno dove sono state analizzate cronache di ordinario sessismo e messe in luce le resistenze tutte culturali all'uso corretto della lingua italiana.

Vi confermiamo, state serene e sereni, che le forme femminili di termini come MINISTRA, AVVOCATA, PREFETTA e tanti altri sono corretti e non è che si possono, ma si devono usare. Quello che manca è l'abitudine al sentirli, nonostante ci si sia abituate/i ben presto a neologismi (come cyberbullismo, bannare, ecc.) che quanto a stranezza o bruttezza non scherzano!
Ma si sa che quando si deve discutere sul riconoscimento delle donne e delle loro professionalità ci si trova davanti ad un'enorme problematica che nasce dalla cultura maschilista in cui siamo tutte e tutti immerse/i e per farvela breve vi cito le parole della docente e linguista Cecilia Robustelli:
"Alla donna non è ancora riconosciuta la piena possibilità di esercitare professioni di prestigio fino a ieri riservate agli uomini: finchè si tratta di fare la cassiera o la cameriera, va bene...ma quando si punta più in alto la situazione cambia. Quindi, ancora oggi, si permette alle donne di svolgere la professione di chirurgo, avvocato, ingegnere, ma in un certo senso non lo si dice. Si tace il fatto. Non si nomina. E il non nominare significa non riconoscere l'esistenza di qualcosa..." (da Lingua e identità di genere, in Saperi e Libertà a cura di Ethel Serravalle)

La giornalista Monica Lanfranco ha poi realizzato queste due interviste su www.radiodelledonne.org nell'ambito dell'evento:

 a Graziella Priulla http://www.radiodelledonne.org/…/parole-tossiche-2-un-conv…/ 

e alla nostra Francesca Rivieri http://www.radiodelledonne.org/…/parole-tossiche-1-un-conv…/


Al convegno sono intervenute: 

Lorena Rambaudi, Assessora Regionale alle Pari Opportunità 

Rita Falaschi, Rete di Donne per la Politica 

Presentazione della Guida “Donne, grammatica e media” di Cecilia Robustelli edito da GiULiA 

M. Teresa Manuelli, Segretaria Nazionale di GiULiA e curatrice della guida. 

 TAVOLA ROTONDA - Presiede Monica Lanfranco, Direttora Rivista Marea

Francesca Rivieri Esperta di comunicazione Centro Antiviolenza D.U.N.A. Massa Carrara

Donatella Alfonso, La Repubblica e Coordinatrice nazionale Commissione P.O. della  FNSI 

Licia Casali, Segretaria dell’Ordine dei Giornalisti Liguri

Alessandra Costante, Segretaria dell’Associazione Ligure dei Giornalisti 

Laura Guglielmi, Direttora di Mentelocale 

Eliana Miraglia, Rai-TGR Liguria. 

Nicola Stella, Il Secolo XIX 

Matteo Cantile, Telenord; Enzo Costa, La Repubblica; Matteo Indice, Il Secolo XIX


La deontologia della Gazzetta di Massa e Carrara (GIURO CHE E' TUTTO VERO) dal blog Lipperatura di Loredana Lipperini

A.R.PA. ringrazia loredana lipperini per l'articolo uscito sul suo blog lipperatura

MERCOLEDÌ, 19 NOVEMBRE 2014

LA DEONTOLOGIA DELLA GAZZETTA DI MASSA E CARRARA (GIURO CHE E’ TUTTO VERO)

Lei è Francesca Rivieri, e mi invia una mail. Questa:
Sono responsabile comunicazione del Centro antiviolenza D.U.N.A. di Massa e, in relazione al mio ruolo, vengo contattata qualche settimana fa da un giornalista per un’intervista sul “linguaggio sessista nella pubblicità”, da pubblicare su lagazzettadimassaecarrara.it.
Accetto l’intervista ben contenta di poter trattare di un tema così importante sul quale stiamo organizzando, come Centro Antiviolenza, un workshop dedicato, aperto, per l’appunto, ai giornalisti.
Realizzo così l’intervista rispondendo a tutte le domande del giornalista, lui si dichiara soddisfatto e mi indica che appena il pezzo sarà pubblicato me ne darà notizia.
Oggi, casualmente, entro sul sito web lagazzettadimassaecarrara.it e leggo nella Home Page il seguente titolo: “Per Francesca Rivieri in Italia non esiste parità fra uomo e donna: che vada a fare una gita-premio nel califfato dell’Isis così si accorge della differenza…” col seguente catenaccio: “La dottoressa Francesca Rivieri accusa la società italiana di essere maschilista e sessista. Alla parola ministro preferisce minestra, pardon ministra e viene a predicarci come si deve fare informazione. Se lo faccia da sé, allora, un giornale”.
Cliccando su questi si arriva alla pagina dell’articolo, dove sotto questo titolo quantomeno inopportuno ed inappropriato si vede una foto (che io non avevo fornito) che mostra una donna seviziata in una lapidazione (ora rimossa e sostituita).
L’articolo riporta esattamente l’intervista realizzata dal giornalista e quindi risulta al lettore completamente estranea al titolo e alla foto. Ma entrambi diventano comprensibili scorrendo al termine dell’intervista, quando compare un commento, integrato nell’articolo, a firma del Direttore di lagazzettadimassaecarrara.it, tale Aldo Grandi.Il commento si presenta come una sorta di “contraddittorio” verso l’intervista, ma in realtà si rivela da subito un attacco profondo alla mia persona, alla mia professionalità e alle donne.
Si leggono passaggi come
“La dottoressa Rivieri vorrebbe trasformare la società indipendentemente da quelli che sono i suoi protagonisti, vorrebbe cambiare le regole del gioco senza capire che quello che viviamo quotidianamente è tutt’altro che un gioco.”
oppure
“Siamo tutti d’accordo sul fatto che chi usa violenza non solo verso la donna, ma verso tutti coloro che sono diversi …”
(diversi???)
E poi
“E lei, adesso, pretende di venire ad insegnare a noi come si fa informazione corretta, addirittura organizzando corsi? Ma lasci perdere e lasci, soprattutto, fare il mestiere di giornalista a chi ha gli attributi per metterci sempre la faccia”
(attributi??)
per concludere con
“Chi scrive non ritiene di dover frequentare alcun corso per imparare a fare informazione corretta usando i vocaboli che voi e tutti quelli che si inventano carte o cartine, vorrebbero imporre a chi, questo mestiere, se lo è guadagnato e sudato”
(per carte e cartine intende forse l’Accademia della Crusca??)
Le chiederei la cortesia di raccontare questa storia per mostrare a che punto siamo arrivati in questo paese, quando si tratta di “comunicazione di genere”. Sono stata contattata come esperta, per vedermi poi attaccata nel titolo stesso dell’articolo, in un modo così frontale e denigrante.
Alla mia richiesta di spiegazioni e rettifiche, il sig. Grandi si è mostrato completamente sordo, sostenendo che “posso sempre querelarlo”.
A prescindere da questa od altre soluzioni, mi premeva rendere questa storia, di cui sono stata ahimé protagonista, uno strumento al servizio della battaglia che quotidianamente portiamo avanti come donne impegnate nell’antiviolenza”.
Detto fatto. Ogni commento sulla deontologia professionale (non sulla sensibilità verso le tematiche di genere, ribadisco: deontologia professionale) è superfluo.
Per chi volesse, ordine dei giornalisti incluso, questo è il link all’articolo. E dal momento che il web è volatile, lo copio e incollo qui sotto. Incluso lo strepitoso titolo originale.
LA GAZZETTA DI MASSA E CARRARA
giovedì, 13 novembre 2014, 23:52.
Per Francesca Rivieri in Italia non esiste parità fra uomo e donna: che vada a fare una gita-premio nel califfato dell’Isis così si accorge della differenza..
E’ una delle tematiche che, spesso e volentieri, emergono, forti e preponderanti nel linguaggio della comunicazione in tutti i suoi aspetti: il linguaggio sessista si impone nella società attuale come uno degli scogli maggiormente da superare. La politica, ma tutta la comunicazione in generale chiede un ragionamento sul perché un certo tipo di lessico permanga ancora oggi, nonostante l asocietà si evolva. Francesca Rivieri è responsabile comunicazione e operatrice per il Centro Antiviolenza D.U.N.A. (Donne Unite nell’Antiviolenza) di Massa gestito dall’associazione Arpa ed è anche formatrice nelle scuole medie e superiori della Toscana. Laureata in scienze della comunicazione, da sempre focalizza il proprio interesse di lavoro ed umano sugli aspetti sessisti della comunicazione.
Dottoressa Rivieri, partiamo da un esempio: dire ministro ad una donna, oggi, non solo è sbagliato, ma cela profonde verità e atavici pregiudizi verso l’altro sesso? Cosa ci può dire al riguardo?
Dire “ministro” ad una donna è sbagliato su più livelli. Il primo è quello grammaticale: ministro è singolare maschile mentre, se mi riferisco ad una donna, dovrei chiamarla con il singolare femminile, che esiste nella lingua italiana e deriva dal latino, ovvero ministra. Ma l’errore grammaticale è sintomo di un problema più profondo e radicato nel maschilismo imperante nella nostra società che ci impedisce, fino a farci dubitare della grammatica stessa, di chiamare le donne, soprattutto se in posizione di potere, con il femminile che appartiene al loro genere. Questo accade, a mio parere, perchè non siamo abituati ad attribuire il giusto peso alle donne nella società e non vogliamo in realtà dare pari dignità di ruolo ad entrambi i generi: donne e uomini. E’ una questione esclusivamente culturale. In Italia non c’è parità uomo-donna in nessun ambito e il linguaggio ne è un esempio palese. La stessa Accademia della Crusca si è espressa in merito non solo confermando l’uso delle forme femminili (quali ministra, avvocata, prefetta, ecc.), ma confermando come la resistenza a tale uso sia culturale e non linguistica, dato che è dimostrabile come più alta è la carica da definire e meno viene declinata al femminile, si pensi in questi giorni alla notizia della nuova direttrice del CERN di Ginevra e come tutti i giornali abbiano titolato DIRETTORE al maschile. Non sarebbe mai successo se fosse stata una infermiera o maestra.
Quali sono i motivi per cui è cosi difficile superare talune barriere linguistiche e mentali del linguaggio? In fondo si tratterebbe solo di modificare una desinenza finale. Non è così difficile.
Magari si trattasse solo di modificare una desinenza finale! Le faccio un esempio: se siamo in presenza di un gruppo misto uomini-donne, dove gli uomini sono in maggioranza ci rivolgiamo agli appartenenti con il maschile (es. “Siamo andati”). Se un gruppo misto è composto da un numero maggiore di donne rispetto a quello degli uomini continuiamo a rivolgerci agli/alle appartenenti al maschile. Secondo la logica dovremmo parlare al femminile (esempio: Siamo andate), no? Allora perchè abbiamo tutte queste resistenze? Perchè ci hanno abituato ad usare il maschile come un neutro anche se non è così e questo è puramente culturale, le donne vengono nascoste “dentro” il genere grammaticale maschile,  quindi, finchè non cambieremo la cultura a partire proprio dal linguaggio, non evolveremo mai in una direzione di parità uomo/donna.
Nella sua esperienza a giro per le scuole quali sono gli aspetti che per lo più lei ha riscontrato come una costante nell’abbattere il muro del pregiudizio e quali le motivazioni più frequenti fornite?
La cosa più difficile da scardinare tra le ragazze ed i ragazzi anche giovanissimi/e sono i ruoli e le relazioni uomo/donna. La donna è quella che fa i figli e sta a casa e l’uomo è quello che lavora e mantiene la famiglia. Uno stereotipo assolutamente illusorio, ma molto radicato, così come che esistano “lavori da donne” e “lavori da uomini”. Grande responsabilità in questo è dei mezzi di comunicazione di massa e in particolare della televisione che, fin da piccoli/e, ci abitua a dei modelli uomo/donna assolutamente falsi e preconfezionati. Con i/le giovani spesso lavoriamo sulle pubblicità dei giochi per bambini, che sono un chiaro esempio di come fin da bambine e bambini ci insegnino quale sia il “nostro posto”: accudire casa, marito e figli per le bambine, lavorare e sperimentare situazioni avventurose per i bambini.
Linguaggio e mass media: quanto influiscono i mezzi di informazione nella diffusione di un certo tipo di lemmi e di vocaboli ed in che misura costituiscono parte del linguaggio sessista attuale?
Come accennato precedentemente i mezzi di comunicazione di massa hanno una grossa responsabilità, perchè entrano nelle nostre case in molteplici forme (radio, tv, internet, pubblicità sulla carta stampata ecc.) e non siamo preparati/ea ricevere e analizzare tutti quei messaggi. La pubblicità spesso è esplicitamente violenta verso le donne che sono trattate come oggetti (spesso sessuali) di uomini che hanno la possibilità di disporne come vogliono. Il corpo della donna, come dice Lorella Zanardo, diventa un oggetto di cui poter disporre come si vuole. Spesso il corpo della donna è mostrato senza testa (la parte pensante) e viene “venduto” in pezzi, proprio quei “pezzi” preferiti, nell’immaginario comune, dagli uomini. La cosa più sconcertante è che ormai siamo talmente abituati/e a questo che anche i prodotti femminili vengono venduti facendo uso del corpo femminile per attirare l’attenzione. (vedi foto allegate)
Spesso, l’espressione “omicidio passionale” è stra-abusata dai redattori e dai giornalisti. Secondo lei, se ne fa un uso corretto oppure no? Quali altri esempi di locuzioni simili?
Io partirei dalla definizione di femminicidio. Il femminicidio, come cita il Devoto-Oli è “Qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuare la subordinazione e di annientare l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte” . Tutto questo non ha a che fare con la passione o con la gelosia, altro termine che piace molto ai giornalisti. Ogni volta che sui media si etichetta un femminicio con la defiinizione “omicidio passionale” si uccide la vittima per la seconda volta. Lo so che può sembrare un’esagerazione quello che dico, ma credo che i giornalisti e le giornaliste abbiano una grande responsabilità, proprio perchè hanno la possibilità di parlare potenzialmente a migliaia di persone. Spesso la vittima passa in secondo piano e si mette l’accento sul fatto che l’assassino “era un buon padre” oppure “era appena stato licenziato” o frasi simili, quasi a giustificare il suo gesto che non è mai un raptus (statisticamente sono pochissimi), ma un’azione voluta e premeditata spesso perchè quella donna cercava di liberarsi dalla morsa della violenza o della sopraffazione.
Ad inizio anno partiranno a Massa interessanti work-shop dedicati, tra gli altri, al metodo ed al mondo del linguaggio: la partecipazione, aperta al pubblico, specialmente a chi lavora per le testate di informazione. Ci spieghi come sarà organizzato.
I work-shop saranno quattro e si terranno tra marzo e aprile 2015, il primo volto ad abbattere e riconoscere gli stereotipi sessisti nella comunicazione/informazione, il secondo sul tema della violenza di genere e gli stereotipi razziali, il servizio di mediazione linguistica e culturale del centro D.U.N.A., il terzo sui diritti LGBT per favorire una vera cultura di genere antidiscriminatoria e l’ultimo sul tema donne e benessere psicofisico, che affronterà nuove metodologie per migliorarsi , conoscersi ed imparare a rispettarsi e volersi bene.
Questi workshop si svolgeranno al termine del corso di secondo livello G.eA.- Genere ed Antiviolenza- che inizierà a gennaio 2015. Il corso, dedicato alle operatrici già attive al Centro Antiviolenza, è finanziato dalla Regione Toscana poichè l’Associazione A.R.PA. ha vinto, per il secondo anno consecutivo, il bando regionale art. 6 della L.R. 16/2009 Cittadinanza di genere. Il corso vedrà impegnate docenti provenienti da tutta Italia dai centri Antiviolenza facente parte della rete TOSCA e D.I.R.E (rete dei centri antiviolenza regionale e nazionale).
Il workshop che terrò io a marzo 2015 verterà appunto sui temi del linguaggio sessista sia nella pubblicità che sui mezzi di informazione. E’ per questo motivo che auspico la partecipazione di diversi giornalisti e giornaliste locali, così da poterci confrontare su una tematica spinosa che deve iniziare ad essere affrontata in modo serio e approfondito.
Cosa potere fare, a livello divulgativo e pedagogico per arrivare a superare definitivamente il sessismo della nostra lingua quotidiana?
La nostra Associazione lavora da anni nelle scuole proprio perchè pensiamo sia necessario partire dalle nuove generazioni per cercare di cambiare mentalità. Lavoriamo sul campo proprio per andare ad analizzare, scardinare e smontare gli stereotipi di genere radicati a livello culturale.  Abbiamo progetti specifici sia sul linguaggio di genere nella comunicazione pubblicitaria e nei mezzi di informazione sia sulla violenza, e le sue varie declinazioni, sia sul funzionamento dei Centri Antiviolenza ed in particolare del nostro che è ormai attivo da circa un anno ed ha accolto al momento una cinquantina di donne vittime di violenza. In parallelo lavoriamo con le Forze dell’Ordine, le assistenti sociali, gli operatori e le operatrici del SERT di Massa e di Carrara, con i Medici e tutti i soggetti che in un modo o nell’altro si trovano a collaborare con noi sulle tematiche della violenza di genere.  Siamo disponibili ed aperte al dialogo con tutti i soggetti interessati all’argomento e che decidano di lavorare con noi per scardinare stereotipi e pregiudizi.
Commento di Aldo Grandi: Pubblichiamo questa intervista perché, a differenza di tanti che darebbero voce solo a chi la pensa come loro, noi crediamo che tutti abbiano il diritto di dire la propria. Così come esiste il diritto di dissentire. La dottoressa Rivieri vorrebbe trasformare la società indipendentemente da quelli che sono i suoi protagonisti, vorrebbe cambiare le regole del gioco senza capire che quello che viviamo quotidianamente è tutt’altro che un gioco. Siamo tutti d’accordo sul fatto che chi usa violenza non solo verso la donna, ma verso tutti coloro che sono diversi, debba essere punito in maniera esemplare e non, ad avviso di chi scrive, con la semplice detenzione in carcere. Ma l’omicidio di una donna è pur sempre un omicidio e l’assassino, a nostro avviso, meriterebbe solo una cosa: la pena di morte. Così non è, ma non è cambiando vocabolario o imponendo a colpi di decreti l’uso di parole diverse e lontane anni luce dalla nostra storia e dalla nostra lingua oltreché da usi e consuetudini, che si ottiene maggiore rispetto per l’universo femminile.
Invece di guardare solo in casa nostra, forse la dottoressa Rivieri farebbe bene a guardare anche in casa d’altri e nella casa degli altri che sta in casa nostra: 150 mila musulmani sono sbarcati nelle nostre regioni e non mi risulta che lei o altre paladine dei diritti della donna si siano sbracciate per protestare contro chi, la donna, considera poco meno che una pertinenza. E lei, adesso, pretende di venire ad insegnare a noi come si fa informazione corretta, addirittura organizzando corsi? Ma lasci perdere e lasci, soprattutto, fare il mestiere di giornalista a chi ha gli attributi per metterci sempre la faccia, davanti all’arroganza del potere, destra o sinistra non importa, davanti all’idiozia e all’inezia di chi vorrebbe governarci e non ne ha nemmeno la capacità.
Siamo stanchi di sentirci definire maschilisti solo e soltanto perché riteniamo che uomo e donna siano due esseri diversi tra loro che cercano di incontrarsi e si innamorano, fortunatamente e fino a quando la vita avrà un senso e una ragione. Se qualcuno usa violenza a una donna, ebbene, che lo si punisca in maniera determinata e determinante, lasciando da parte i discorsi da aula universitaria e badando più alla concretezza. Chi scrive non ritiene di dover frequentare alcun corso per imparare a fare informazione corretta usando i vocaboli che voi e tutti quelli che si inventano carte o cartine, vorrebbero imporre a chi, questo mestiere, se lo è guadagnato e sudato, mangiando pane e merda negli anni in cui non aveva alternative e in un’epoca in cui il pensiero dilagante è colorato di rosso.
Quanto alla parità tra uomo e donna, forse la dottoressa Rivieri desidererebbe recarsi nei paesi del Nord Europa, a suo avviso più liberi del nostro, ma vorrei ricordarle, tanto per parlare di violenza e comunicazione, che a Amburgo come ad Amsterdam come a Copenaghen e via dicendo, le donne vengono sbattute, con il loro consenso, dietro una vetrina a fare le prostitute, ma nessuno si è mai sognato di contestare questi paesi definendoli maschilisti. Forse sarà il caso, glielo dico provocatoriamente, che anche da noi si arrivi a costruire i famosi quartieri del sesso a pagamento?