A.R.PA. è un ‘associazione di Promozione Sociale che nasce nel gennaio 2001 dall’incontro di un gruppo di donne impegnate nel contrasto alla violenza di genere, interessate all’approfondimento delle tematiche di genere e delle politiche delle pari opportunità.
Ringraziamo tutte le persone che in questi giorni hanno sostenuto, sostengono e sosterranno il Centro Antiviolenza D.U.N.A.-Donne Unite Nell'Antiviolenza ed in particolare dopo la meravigliosa avventura del mercatino Beatrice's Christmas
A.r.pa. ringrazia di cuore Il Socio che ci ha ospitate per l'aperitivo solidale e donato la macchina del caffè per il centro antiviolenza D.U.N.A., la Enemy 's Recordse tutti i commercianti di Via Beatrice!
Sempre nell'ambito delle iniziative a sostegno del Centro Antiviolenza D.U.N.A.-Donne Unite Nel'Antiviolenza- dopo il mercatino del sabato 20 faremo un Aperitivo di raccolta fondi dalle ore 19.00 pressoIl Socio (via Beatrice - Massa) che ringraziamo per la collaborazione!
A.R.PA. aderisce alla campagna per cambiare il linguaggio sessista e retrogrado dell'informazione #giornalismodifferente lanciata da Narrazioni Differenti
E' tempo di pretendere Giornalismo Differente e noi lo sappiamo bene (leggi qui)
Questo il manifesto della campagna
Il giornalismo italiano sembra completamente sordo ai progressi della società in fatto di questione di genere e, infatti, continua a utilizzare un linguaggio, delle immagini e un immaginario retrogrado, violento e discriminante.
E’ tempo di pretendere un cambiamento.
E’ tempo di pretendere che il giornalismo italiano si metta al passo coi cambiamenti della società, della realtà, che rappresenti il meglio di questa e superi i retaggi della cultura patriarcale, maschilista e omo-transfobica.
E’ tempo di pretendere un Giornalismo Differente, perché del valore di informare rimanga anche quello di innovare.
La realtà dipende dalle sue rappresentazioni.
Di pari passo vanno le modifiche di una e delle altre, a specchio.
Ma se la realtà inizia a usare vocaboli, idee, immaginari che non trovano mai una rappresentazione massiccia, lo scollamento è inevitabile.
Solo da poco il giornalismo ha introdotto il termine femminicidionel proprio vocabolario.
Un passaggio fondamentale per ripristinare una rappresentazione che rispondesse alla realtà: donne uccise in quanto donne.
Eppure a questo non è seguito un miglioramento complessivo del linguaggio o dell’approccio giornalistico al genere, soprattutto per quello che riguarda i giornalisti di cronaca –cronaca nera in particolare.
E’ tempo di suggerire quindi al giornalismo italiano, tutto, alcune semplici regole di linguaggio e approccio, che nel 2014 sarebbe proprio il caso di applicare.
Oggi è il 25 novembre, Giornata internazionale della lotta alla violenza sulle donne.
Abbiamo deciso di lanciare oggi questa campagna perché crediamo che il linguaggio mediatico comunichi la cultura che ci rispecchia, consolidando la nostra visione del mondo e che, per questo, il giornalismo italiano debba cambiare, migliorare, evolvere.
Chiediamo un Giornalismo Differente, lo facciamo lanciando un hashtag#giornalismodifferente e delle prime rivendicazioni:
1. Un femminicidio non è colpa della disoccupazione / della depressione / della passione.
La violenza sulle donne è sempre esistita, con o senza crisi economica. Un uomo non picchia, umilia o uccide una donna perchè è rimasto disoccupato. Lo fa perchè la sua cultura lo autorizza a sentirsi superiore alle donne, a sentirsi padrone delle loro vite, a dominarle psicologicamente e fisicamente. Anche le donne rimangono disoccupate ed entrano in depressione, anche le donne, anzi soprattutto le donne, soffrono la crisi dentro e fuori casa, ma per un uomo queste diventano possibile “giustificazioni” ad un femminicidio, autorizzato invece dalla sua cultura patriarcale.
Quella stessa cultura che insegna alle donne a subire passivamente in nome dell’accoglienza e la mitezza per cui è programmata.
Ecco tre esempi tratti da Corriere della Sera, AGI – agenzia giornalistica Italia, e Repubblica.it
2. Non è il raptus che uccide!
Allo stesso modo, il raptus è un alibi che il giornalismo fornisce a chi uccide la propria compagna, moglie, fidanzata, amica.
La violenza sulle donne è un fenomeno strutturale. Ha radici profonde e non può essere ricondotta a un momento di violenza improvviso. Piuttosto, si tratta di anni di piccole avvisaglie, di atteggiamenti psicologicamente o fisicamente violenti, di affermazione di cultura maschilista, o spesso di stalking e intimidazioni che sfociano in maniera assolutamente premeditata nell’uccisione della donna che si è sottratta al possesso patriarcale.
In questo articolo ad esempio, Repubblica usa il termine raptus, per poi specificare però che i due avevano spesso litigi violenti.
3. No alle pornovittime!
Una donna rimane un oggetto sessuale anche da morta. Così non mancano gli esempi di vittime di femminicidio o di violenza sessuale, anche giovanissime –ritratte spesso dai giornali anche in bikini–, sottolineandone l’avvenenza.
Come se da quella dipendesse la sorte di una violenza, di un’aggressione.
Se poi la donna uccisa è una donna famosa anche per la sua avvenenza, non le si risparmiano gallery su gallery della sua immagineammiccante, anche da morta. Pensiamo ad esempio allo sciacallaggio mediatico su Reeva Steenkamp, la donna uccisa dal campione paraolimpico Pistorius.
Anche le foto di repertorio scelte dai giornali per parlare di violenza sessuale e femminicidio rimandano spesso a un immaginario sessualizzato: minigonne cortissime, calze autoreggenti, magliette scollate. E poi pose rannicchiate nel buio, mani sulla faccia. Come se la vergogna fosse la loro e non quella di chi le ha aggredite. Porno + vittimizzazione, un pessimo risultato.
Le immagini che seguono sono alcune tra le più utilizzate dai giornali quando si parla di stupro, rintracciabili dai free press come Leggo fino a Il Messaggero.
4. Cosa indossa una vittima di violenza? Chissenefrega!
Più chiare di così non si poteva essere. Ancora oggi spesso i giornalisti specificano oltre all’aspetto fisico anche l’abbigliamento di una vittima di violenza di genere. Perchè? A cosa serve dirci che indossava una minigonna? O che era bella? A nulla.
Perchè la violenza è trasversale e non colpisce solo donne avvenenti o vestite in modo succinto.
Anzi, perlopiù avviene dentro le mura domestiche, in famiglia, dove davvero nulla importa come si è vestite.
Se la vittima di una violenza sessuale di qualsiasi tipo è una donna avvenente si susseguono nell’articolo le sue immagini, persino in bikini, per attirare lettori, altrimenti si allude al suo aspetto e al suo abbigliamento, se si tratta di una sex worker, anche al suo lavoro ovviamente, nel quadro di un generale slut shaming,ovvero di una colpevolizzazione costante delle donne.
Così la notizia di una donna molestata sessualmente diventa “giustificata” da come quella, per di più ballerina di un night, andava vestita, nell’articolo di Treviso Today.
5. Il capofamiglia non esiste più!
Il capofamiglia. Una parola usata molto spesso dal giornalismo italiano, ma che ci riporta indietro a quando l’Italia rispettava ancora la norma contenuta nell’art. 144 del Codice civile, che prevedeva il ruolo di capofamiglia e lo attribuiva al marito, abrogata poi dalla legge 19 maggio 1975, n. 151 con la Riforma del diritto di Famiglia. Il capofamiglia non esiste più da 40 anni, ma il giornalismo italiano continua a usare questa espressione.
Come continua a usare la giustificazione dell’onore e della gelosia maschile per parlare di violenza, riportandoci a un’altra pietra miliare del nostro diritto, il delitto d’onore, abrogato solo nel 1981.
Questi retaggi maschilisti, seppur eliminati dal diritto ufficiale, persistono nel linguaggio giornalistico, tradendo la sostanziale adesione a un modello culturale da cui sarebbe anche tempo di affrancarsi.
Ancora Repubblica.it ci fornisce un esempio dell’uso improprio di “capofamiglia”, (in questo articolo) che viene usato per intendere l’uomo del nucleo familiare dove, tra l’altro, era invece la donna a provvedere al mantenimento della famiglia.
6. unA transessuale, al femminile
Alla condizione femminile, non può non essere associato il trattamento linguistico-mediatico riservato anche a persone LGBTQI, soprattutto per quel che riguarda LE transessuali, relegate tanto alla macchietta che a cui i media le condannano da non meritare nemmeno l’articolo femminile.
Una piccolezza, risponderà il/la giornalista dalla sua scrivania.
Invece no. Perché il genere maschile e femminile non sono solo acquisizioni basate sul sesso biologico, ma anche faticose conquiste identitarie. E ciò va rispettato.
Il transessualismo indica l’esperienza vissuta da tutte quelle persone che non sentono di appartenere al sesso biologico acquisito con la nascita e che, quindi, intraprendono un percorso di adattamento del proprio fisico alla percezione psicologica ed emozionale che hanno di sé. Dunque se quella persona ha scelto di appartenere al sesso e al genere femminile,i media dovrebbero evitare di rimetterle addosso un’etichetta maschile ( e viceversa ), allo stesso modo in cui la società, tutta, dovrebbe acquisire la capacità di relazionarsi alle persone in base alle scelte che compiono e non ai ruoli precostituiti che si vogliono imporre loro.
Così, anche il Corriere della Sera, che è solo uno dei giornali indecisi sul genere da attribuire a persone transgender, in questo articolo sulla morte di Brenda, trans tristemente nota per il suo coinvolgimento nello “scandalo” Marrazzo, alterna il maschile al femminile.
7. Vogliamo parlare di donne vive ( e fuori dai ghetti rosa )?
Più in generale, il giornalismo tende a narrare e rappresentare le donne solo come vittime di violenza. Affollano le pagine dei quotidiani e le schermate dei pc tutte le donne stuprate, uccise, aggredite, sfgurate. Di donne forti, uscite dalle difficoltà, capaci di reagire o che propongono un immaginario differente da quello descritto finora non c’è quasi traccia.
COME ADERIRE A #GIORNALISMODIFFERENTE
Per aderire alla campagna inviateci la vostra adesione, singola o collettiva a narrazionidifferenti@gmail.com
Questo manifesto per il Giornalismo Differente, con tutte le sue adesioni, sarà inviato all’attenzione delle principali testate nazionali.
Diffondete l’hashtag #giornalismodifferente su Twitter unito alle nostre e alle vostre rivendicazioni, taggando le principali testate italiane.
#giornalismodifferente Un femminicidio non è colpa della disoccupazione!
Non è il raptus che uccide!
No alle pornovittime!
Cosa indossa una vittima di violenza? Chissenefrega!
La Presidente della Commissione regionale Pari Opportunità della Toscana, Rossella Pettinati, ha inviato a noi e alla stampa regionale questo comunicato in solidarietà ai fatti accaduti alla nostra responsabile della comunicazione Centro Antiviolenza D.U.N.A., Francesca Rivieri, firmato anche dal Presidente della Commissione Donna per le Pari Opportunità del Comune di Carrara, Alessandro Bandoni.
A.R.PA. ringraziando entrambe lo pubblica con grande piacere.
Pochi giorni fa una rivista on-line di Massa Carrara decide di intervistare la responsabile comunicazione del locale Centro Antiviolenza D.U.N.A, l’oggetto è “il linguaggio sessista nella pubblicità”. L’intervistata è la dott.ssa Francesca Rivieri, responsabile comunicazione e operatrice di Donne Unite nell'Antiviolenza di Massa ed è anche formatrice nelle scuole medie e superiori della Toscana.
L’intervista viene pubblicata con il seguente titolo: “Per Francesca Rivieri in Italia non esiste parità tra uomo e donna: che vada a fare una gita-premio nel califfato dell’Isis così si accorge della differenza…”.
Un titolo che non si comprenderebbe se non scorrendo il commento del direttore della rivista che chiude il pezzo. In pratica una farneticazione tesa a mettere in ridicolo l’intervistata in relazione ai concetti espressi, utilizzando un tono particolarmente aggressivo e violento. Più di tutto al direttore “brucia” che la dottoressa Rivieri abbia potuto adombrare l’opportunità che sul tema si possano, magari, fare attività di formazione rivolte proprio a coloro che la comunicazione la fanno, appunto i giornalisti.
“La dottoressa Francesca Rivieri accusa la società italiana di essere maschilista e sessista. Alla parola ministro preferisce minestra, pardon ministra e viene a predicarci come si deve fare informazione. Se lo faccia da sé, allora, un giornale”. Ed ancora “E lei, adesso, pretende di venire ad insegnare a noi come si fa informazione corretta, addirittura organizzando corsi? Ma lasci perdere e lasci, soprattutto, fare il mestiere di giornalista a chi ha gli attributi per metterci sempre la faccia”… Per non citare che alcune perle!
L’atteggiamento del direttore in questione è sicuramente un caso isolato, almeno in quanto a violenza verbale. Un comportamento comunque che riteniamo debba essere condannato e per quanto possibile contrastato.
Mentre esprimiamo a Francesca tutta la nostra solidarietà, abbiamo ritenuto di segnalare l’accaduto all’ordine dei giornalisti cui il direttore è iscritto. Non ci pare si debbano far passare sotto silenzio comportamenti così scorretti e gravi. Vogliamo rivolgerci a chi si occupa di informazione proprio perché i messaggi sono importanti. Il dominio culturale di media, spesso non attenti alla dignità delle donne, contribuisce pericolosamente a creare uno stereotipo di donna lontana dalla realtà, una immagine del femminile che, spacciata per spregiudicata e libera, offende il principio elementare del rispetto e nasconde la crescita professionale, civile e culturale delle donne. C’è qualcosa che non va nello scarto che avvertiamo tra il valore di milioni di donne italiane e la “credibilità” di un paese che esprime tanta arretratezza in materia di rispetto dei diritti della persona.
Un’informazione corretta e responsabile può contribuire a formare una coscienza civile e una cultura dove prevalga il rispetto reciproco, la consapevolezza che al fondo della violenza contro le donne c’è sempre un modello di rapporto che presuppone la prevaricazione di uno nei confronti dell’altra.
Insomma l’esatto contrario di quello che, di fatto, è contenuto nel commento all’intervista e nel titolo del pezzo.
In questi giorni sono numerose le iniziative di enti e associazioni per ricordare la giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Il nostro paese ha da poco ratificato la convenzione di Istanbul, approvato una legge, la 119/2013, che introduce importanti novità di carattere giuridico e stanzia fondi a sostegno dei centri antiviolenza. La legge inoltre rimanda ad un piano straordinario d’intervento, ad oggi non approvato, un complesso di azioni di prevenzione e contrasto, tra queste le azioni formative, rivolte a diversi soggetti (forze di polizia, personale sanitario, strutture giuridiche), assumono un particolare valore. Tra marzo ed aprile 2015 il centro D.U.N.A terrà a Massa alcuni workshop finalizzati ad abbattere e riconoscere gli stereotipi sessisti nella comunicazione e nell’informazione.L’iniziativa è aperta a tutti, ed è auspicabile che vi partecipino anche operatori dell’informazione locale. Ancora più rilevante sarebbe che fossero gli stessi organismi di governo della categoria a farsi promotori di simili iniziative. Perché no? Perché non prevedere davvero nell’ambito delle iniziative di aggiornamento della categoria momenti di approfondimento sul tema, non solo per capire che Ministra è esattamente corretto come Ministro, ma soprattutto per chiedersi se quando si scrive di donne non si stia scivolando, magari in buona fede, nel più banale e diffuso stereotipo, e per evitare di raccontare le storie di violenza come storie di “amore malato” o ancora come una questione che riguarda “solo le donne”. Noi riteniamo ce ne sia estremo bisogno. Sarebbe un buon modo per celebrare questo 25 novembre.
Rossella Pettinati PRESIDENTE COMMISSIONE PARI OPPORTUNITÀ della Regione Toscana Alessandro Bandoni PRESIDENTE COMMISSIONE DONNA PER LE PARI OPPORTUNITÀ del Comune di Carrara
Massa,
25 novembre 2014 -
In occasione
della Giornata
internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne,
l'Associazione
A.R.PA.-Associazione
Raggiungimento Parità,
vuole sottolineare l'importanza del suo lavoro svolto al Centro Antiviolenza D.U.N.A.-Donne Unite Nell'Antiviolenza.
Perchè
per noi il 25 Novembre è ogni singolo giorno dell'anno?Facciamo
mediamente due colloqui al giorno, abbiamo ricevuto al numero H24 137
telefonate
ed oggi abbiamo in
carico
53 donne
provenienti da tutto il territorio provinciale ed extra provinciale,
a
cui prestiamo in maniera del tutto volontaria i seguenti servizi
gratuiti: •
Accoglienza•
Ascolto
telefonico h 24•
Colloqui
su appuntamento•
Sostegno
nel percorso di fuoriuscita dalla violenza•
Assistenza
legale•
Consulenza
legale: civile, penale, minorile•
Consulenza
psicologica•
Gruppi
CAM (Conoscersi Attraverso il Movimento)- Metodo Feldenkrais•
Gruppi
di auto-mutuo aiuto•
Mediazione
linguistica•
Sportello
antistalking. Facciamo
inoltre attivitàdi
prevenzione e sensibilizzazione, orientamento e accompagnamento al
lavoro, attività di rete, raccolta ed elaborazione dati, raccolta di
materiale in tema di violenza, raccolta abiti usati per donne e
minori di tutte le età. Lavoriamo in sinergia con Forze dell'Ordine,
assistenza sociale, pronto soccorso, scuole e ad anno nuovo faremo
ingresso formale nella rete regionale dei Centri Antiviolenza TOSCA
con cui già collaboriamo
attivamente.
Perchè
è fondamentale il lavoro del Centro Antiviolenza D.U.N.A.?
Il
Centro
assicura protezione e sicurezza, empowerment e cambiamento sociale. È
un luogo di donne per le donne perché una donna che ha subito una
violenza da un uomo, nel momento in cui chiede aiuto, interpella
nell’altra una rappresentazione di se stessa. Il concetto di
violenza
contro le donne
ha a che fare con le relazioni di coppia, con le rappresentazioni
sociali dei rapporti di genere e con la disparità
di potere tra uomini e donne.
Quindi affrontare il problema della violenza sulle donne diventa
legittimo solo in un contesto che mette in discussione e parte dalla
subordinazione, sociale e culturale, all’uomo.
L’intervento
è di carattere
relazionale
o psico-sociale,
non
terapeutico in senso tecnico
e consiste in un percorso di colloqui a cadenza periodica e di durata
variabile, finalizzato al raggiungimento di obiettivi stabiliti con
la donna, secondo tappe concordate. Ci si basa
sul rafforzamento (empowerment)
dell'identità della donna, fondamentale per autodeterminarsi,
e sulla relazione tra donne che noi preferiamo chiamare
„sopravvissute“
e non „vittime“.
Per questo ci si avvale di personale esclusivamente
femminile
e specializzato
sul tema. È solo attraverso la relazione fra donne che si può
innescare un processo virtuoso di reciproco riconoscimento
e sostegno.
Alle donne non vengono offerte soluzioni precostituite, ma un
sostegno specifico e informazioni adeguate, affinché possano trovare
la soluzione adatta
a sé e alla propria situazione così da poter costruire
autonomamente
il proprio percorso
di uscita dalla violenza.
Fondamentali sono i servizi di reperibilità
H24
e la seria valutazione
del rischio
attuata attraverso strumenti riconosciuti a livello europeo.
Qual'è
la tipologia di violenza che più colpisce queste donne?La
violenza
domestica
è la forma di violenza più diffusa,
gli
atti sono per la maggior parte dei casi gravi, una parte delle donne,
prima di rivolgersi al centro D.U.N.A., non considerava la violenza
domestica un reato
e alcune lo accettavano come un fatto
comune.
È quindi piuttosto facile capire come la violenza
nella sfera privata
rimanga spesso in gran parte invisibile
e sotto denunciata.
Tipologie
di violenza:
psicologica
– 24
fisica
– 27
economica
– 14
sessuale
– 6
stalking- 14
altro
– 10
Da
considerare che diverse donne subiscono contemporaneamente più di
una tipologia di violenza.
Chi
sono le donne che si rivolgono al centro?
Nel 97%
dei casi
si tratta di donne che hanno subito violenza
in famiglia
dal proprio partner o ex, e sono donne che hanno subito violenza
fisica, psicologica, economica, sessuale e/o stalking. Provengono da
tutte
le classi sociali
e con differenti
livelli di istruzione
molte non hanno lavoro, mentre altre lo avevano ma sono state
costrette a lasciarlo perché il proprio partner non permetteva loro
di andarci. Tuttavia c’è da chiarire una volta per tutte che anche
l’indipendenza
economica
delle donne non
costituisce una garanzia di libertà
dalla violenza, vi sono meccanismi psicologici e culturali complessi
per cui una donna rimane con il partner violento.
Chi
è il maltrattante?
Il maltrattante è un uomo normale,
con una vita sociale e relazionale normale, nel
99% dei casi con un lavoro.
L’uomo violento per sfuggire alle proprie responsabilità e
mantenere il controllo sulla donna, tenta con qualunque mezzo di
favorire il suo silenzio
ma se non riesce ad ottenerlo attacca
la credibilità
della stessa: è pazza, non è vero, si è inventata tutto, mi vuole
rovinare perché le ho detto che non la amo più, e simili.
Chi
sono le operatrici del Centro D.U.N.A.?Abbiamo
27
figure professionali esperte
in accoglienza, ascolto telefonico, assistenza legale e tutela
minori,
ascolto e approccio socio-culturale di genere, antropologia di
genere,
politiche del lavoro e valutazione delle competenze, counselor,
psicologhe, psicoterapeute, educatrici e pedagogiste, esperta in
fisioterapia, esperte in comunicazione di genere, progettazione e
mediatrici interculturali e linguistiche.
Quali
le attività di prevenzione e formazione?Svolgiamo
da anni attività
di formazione
nelle scuole del territorio e abbiamo
vintoper
il secondo anno consecutivo, il bando regionale di cui all’articolo
6 della l.r. 16/2009 (Cittadinanza di genere), conil
progetto G.eA.-
Genere E Antiviolenza,
con cui daremo continuità al percorso intrapreso con il laboratorio
antiviolenza M.E.L.A. Il corso inizierà a fine gennaio e
realizzeremo
interventi formativi di secondo livello
per rafforzare le competenze delle operatrici, formarne di nuove e
grazie a quattro workshop tematici che coinvolgeranno tutta la
cittadinanza , vogliamo diffondere
una cultura di genere, antisessista, antidiscriminatoria e della non
violenza, perché tutte e tutti possano esseremessi
nella condizione di accrescere le proprie conoscenze e superare
barriere mentali imposte da una cultura distorta.
Oggi siamo intervenute al convegno PAROLE TOSSICHE organizzato dalla Rete di Donne per la Politica di Genova. Ringraziamo la giornalista Monica Lanfranco e le donne della Rete di Genova per la bellissima opportunità che ci hanno dato e soprattutto per l'aver organizzato un convegno dove sono state analizzate cronache di ordinario sessismo e messe in luce le resistenze tutte culturali all'uso corretto della lingua italiana. Vi confermiamo, state serene e sereni, che le forme femminili di termini come MINISTRA, AVVOCATA, PREFETTA e tanti altri sono corretti e non è che si possono, ma si devono usare. Quello che manca è l'abitudine al sentirli, nonostante ci si sia abituate/i ben presto a neologismi (come cyberbullismo, bannare, ecc.) che quanto a stranezza o bruttezza non scherzano! Ma si sa che quando si deve discutere sul riconoscimento delle donne e delle loro professionalità ci si trova davanti ad un'enorme problematica che nasce dalla cultura maschilista in cui siamo tutte e tutti immerse/i e per farvela breve vi cito le parole della docente e linguista Cecilia Robustelli:
"Alla donna non è ancora riconosciuta la piena possibilità di esercitare professioni di prestigio fino a ieri riservate agli uomini: finchè si tratta di fare la cassiera o la cameriera, va bene...ma quando si punta più in alto la situazione cambia. Quindi, ancora oggi, si permette alle donne di svolgere la professione di chirurgo, avvocato, ingegnere, ma in un certo senso non lo si dice. Si tace il fatto. Non si nomina. E il non nominaresignifica non riconoscere l'esistenza di qualcosa..." (da Lingua e identità di genere, in Saperi e Libertà a cura di Ethel Serravalle)
Al convegno sono intervenute: Lorena Rambaudi, Assessora Regionale alle Pari Opportunità Rita Falaschi, Rete di Donne per la Politica Presentazione della Guida “Donne, grammatica e media” di Cecilia Robustelli edito da GiULiA M. Teresa Manuelli, Segretaria Nazionale di GiULiA e curatrice della guida. TAVOLA ROTONDA - Presiede Monica Lanfranco, Direttora Rivista Marea Francesca Rivieri Esperta di comunicazione Centro Antiviolenza D.U.N.A. Massa Carrara Donatella Alfonso, La Repubblica e Coordinatrice nazionale Commissione P.O. della FNSI Licia Casali, Segretaria dell’Ordine dei Giornalisti Liguri Alessandra Costante, Segretaria dell’Associazione Ligure dei Giornalisti Laura Guglielmi, Direttora di Mentelocale Eliana Miraglia, Rai-TGR Liguria. Nicola Stella, Il Secolo XIX Matteo Cantile, Telenord; Enzo Costa, La Repubblica; Matteo Indice, Il Secolo XIX