sabato 15 novembre 2014

Se un direttore di testata vuole insegnarci come prevenire la violenza sulle donne. Dal blog Abbatto i muri

Ringraziamo il blog abbatto i muri e riportiamo l'articolo!


Se un direttore di testata vuole insegnarci come prevenire la violenza sulle donne

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Mi scrive Francesca Rivieri, responsabile del Centro antiviolenza D.U.N.A. di Massa, la quale viene intervistata da un giornalista di lagazzettadimassacarrara.it sul tema del linguaggio sessista in pubblicità. Il Centro sta organizzando un workshop su quel tema e nell’intervista Francesca ragiona sulla comunicazione a proposito di violenza sulle donne. Parla della rivittimizzazione delle donne uccise quando sui media un femminicidio viene descritto come un “omicidio passionale” e racconta come l’interazione tra chi si occupa di violenza sulle donne e chi offre notizie di cronaca sia necessaria per determinare un cambiamento culturale.
Il cambiamento culturale è quello per cui maggiormente i centri antiviolenza, che non hanno radice securitaria e giustizialista, si battono, dunque l’analisi del linguaggio, una riflessione sull’immaginario che genera diventa una attività preventiva importante dalla quale dovrebbe conseguire una relazione virtuosa tra tutte le componenti sociali che hanno interesse a fare cambiare le cose. Ad ogni modo l’intervista fatta viene pubblicata con una presentazione che però non ha nulla a che fare con quello che Francesca racconta. Il titolo la rimanda a una gita presso un califfato tal dei tali per dimostrarle che le vere vittime di violenza o di rapporto impari nella società starebbero altrove.
A seguire l’intervista poi scorre un commento del direttore della testata (trovate tutto QUI) il quale piuttosto che opporre una critica nei contenuti liquida Francesca con i seguenti argomenti:
- per combattere la violenza niente chiacchiere, serve la pena di morte! (brrr)
- la ricerca di un linguaggio diverso dal quale possa derivare un diverso immaginario, ma chissenefrega!
- chi sei tu per venire a insegnare il mestiere a me che ho sudato per diventare un giornalista. si facci i workshop suoi che io mi faccio i miei!
- invece di guardare “casa nostra” bisognerebbe guardare nella casa “degli altri che stanno in casa nostra: 150 mila musulmani sono sbarcati nelle nostre regioni” e dunque lamenta il fatto che le donne non hanno protestato per questa invasione di bruti che sarebbero tutti intenzionati a “considerare le donne poco meno che una pertinenza”!
- si smetta di definirci maschilisti, si badi ad applicare pene severe, ché non sono le parole che salvano le donne. Che nessun@ osi insegnare il mestiere ad un giornalista di professione (non sia mai!) che ha gli “attributi” per essere tale.
- la parità tra uomo e donna non è vero che esiste nel nord europa perché lì ci sono le prostitute legalizzate e quella roba lì sarebbe dimostrazione del sessismo di quei paesi.
Francesca legge queste esternazioni e a parte intravedere un “lieve” attacco personale proprio non capisce perché mai si chieda un’intervista ad una persona che ha queste idee per poi corredare l’articolo con una massiccia dose di paternalismo della serie “so io quel che è bene per le donne” e con una strenua difesa del maschio italico. Avrebbero potuto dire qual era l’intenzione della testata o per lo meno avrebbero forse potuto inserire commenti critici tra le domande dell’intervista, così Francesca avrebbe potuto avere diritto di replica che spero comunque le sia riservato.
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Quello che io penso è che il rispetto per la diversità di opinione non si manifesta così. Se decidi di ospitare un testo e un’intervista che contiene messaggi che non sei solito veicolare la pubblichi comunque integralmente senza una titolazione che allude ad altro e senza gettare un’ombra negativa sulla questione. O è una interlocuzione paritaria tra le parti, sebbene diverse, ovvero potevano essere due articoli differenti. Uno con l’intervista e un altro con valutazioni a proposito della visione del direttore della testata. Senza che vi sia una necessità di bollare Francesca come una che ha bisogno di fare viaggi esotici per imparare a beccare l’uomo rude, come se i delitti realizzati sulla pelle delle donne fossero stati commessi solo da stranieri.
Per mio conto io comunico che la maggior parte dei delitti contro le donne, in Italia, vengono commessi dentro casa e da italiani. Si può serenamente consultare il Bollettino di Guerra per accertare questa ovvietà. Poi dico che per fortuna le donne che si occupano di violenza sulle donne hanno ben chiaro che la questione non si risolve mollando nel mar mediterraneo gli stranieri che vengono a trovarci. Inoltre i centri antiviolenza, da quel che ne so, non perseguono una corsia giustizialista in stile USA, preferiscono maggiore garantismo e un lavoro più serrato sulla prevenzione. In questo lavoro è compreso lo studio del linguaggio e la diffusione di una cultura differente. Lì ciascuna di noi, femministe, persone che si occupano di questo, può avere una visione diversa, può guardare la faccenda da diversi punti di vista, ma in generale il confronto serrato avviene sempre con l’intenzione di cercare soluzioni che possano evitare ulteriori vittime.
La mia impressione, rispetto ad un articolo che distorce o reinterpreta, sovradeterminando, il contenuto di una intervista in cui si racconta il lavoro delle donne, investendo sulla nostra autodeterminazione, è che il direttore non abbia resistito alla tentazione di farci la paternale per insegnarci come vivere. Una delle tracce più evidenti del sessismo, se posso permettermi, deriva anche da questo. Il fatto che un uomo non abbia voglia di ascoltare o senta la necessità di dire alle donne cosa dovrebbero fare, non tanto per salvarsi ma per essere salvate, con l’intervento di pene severe, istituzioni forti e tutori pronti a tutto (con le sciabole e la fascia da Rambo), ignorando il fatto che per salvare le donne bisogna investire sull’autostima delle donne e non fare iniezioni di sicurezza ai suoi tutori, già dimostra quanta distanza d’approccio al problema vi sia tra le due parti.
A me viene voglia di dire una cosa piccola piccola ma che spero possa essere utile al direttore per riflettere, al di là delle differenze di approccio politico: caro direttore, descrivere la donna come soggetto debole, che ha sempre bisogno di essere salvata dai tutori, vista come vittima anche quando sceglie di fare la prostituta nelle nazioni in cui il mestiere è legalizzato, non è davvero un buon contributo per la causa. Con tutto il rispetto per il sudore che ha speso per guadagnarsi il titolo di giornalista, quello di cui Francesca discuteva corrispondeva al desiderio di una interazione sociale tra parti che hanno differenti competenze ed esperienze. Immagino che Francesca abbia una esperienza di qualche anno nel campo della lotta contro la violenza sulle donne. Sarà entrata in contatto con donne vittime di violenza, avrà studiato i meccanismi che portano ad essa, avrà anche una sua idea su come applicare una forma di prevenzione. Questa ricchezza Francesca aveva voglia di condividerla con il giornalista che l’ha intervistata e con chi aveva voglia di leggerla. Mi spiace che lei non abbia apprezzato, ancor di più mi spiace che in quel che ha scritto io vedo un esempio di pessimo giornalismo.
Da quando un giornalista, piuttosto che dare notizie, portando fonti (150 mila musulmani in assalto delle nostre coste? dove sta scritto? la violenza che avverrebbe nelle case degli altri? davvero?), argomentando sulla base di contenuti verificabili, decide di opporre un commento che deriva da un’idea personale in attacco ad una intervista? Cioè, da quando?
Con un abbraccio a Francesca e un augurio di buon lavoro.