Il Tirreno 8 Marzo 2015
MASSA. «Forse un'operatrice ha il ruolo di traduttore».«Traduttore ma anche collante».«Sì, ma gli altri cosa devono fare?». Domande, risposte, opinioni emerse durante il corso di formazione sulla violenza di genere organizzato da Arpa, in collaborazione con Casa Betania onlus e l'associazione Mafalda (con il patrocinio di Regione e Comune) che ha preso vita ieri mattina nella scuola di Romagnano. A confrontarsi, a capire, a crescere insieme, le operatrici del centro antiviolenza Duna, i servizi sociali, la questura, la polizia giudiziaria e gli assistenti sociali. Ossia tutte le figure che operano nel campo della violenza di genere. Il corso era proprio incentrato sul “come fare rete” e, forse, cadendo a ridosso dell'8 marzo, aveva anche l’ obiettivo di rendere questa festa meno mondana e più sacra.
Per ricordare che è nata, sì, in nome delle conquiste sociali, politiche ed economiche delle donne, ma anche per non nascondere le discriminazioni e le violenze di cui sono ancora oggetto in molte parti del mondo. E anche qui, a Massa, magari proprio nella porta accanto. Solo nel 2015, in appena quindi due mesi, hanno chiesto aiuto al centro antiviolenza massese 13 donne, 69 le chiamate. Donne manipolate psicologicamente dal marito o compagno con una serie infinita di «dove vai vestita così?»,«non ti vuole nessuno»,«non servi a niente»: offese, manovre, abusi di potere che sono riusciti nell'intento di farle sentire colpevoli e inadeguate. Fino al momento in cui hanno deciso di dire basta. Ci sono poi donne massacrate di botte dal compagno. Uno strattone, uno schiaffo, un pugno e ancora e ancora. Spesso davanti ai figli che probabilmente cresceranno pensando che l'amore sia questo: violenza e caos. C'è poi chi è stata vittima di violenza sessuale, economica, o di stalking. Oppure di tutto insieme.
Quindi, in quella mura, donne e uomini si sono confrontati per capire come agire in questo territorio, ancora culturalmente molto indietro. «Lo noto anche durante i processi – racconta Laura Del Mancino, 37 anni, avvocata e presidente di Arpa -. La violenza di genere viene classificata ancora come conflittualità coniugale e questo porta le donne a non denunciare». Le vere protagoniste quindi di questo percorso verso le libertà delle donne sono loro: le operatrici del centro. Chiamiamole attiviste o angeli delle donne. Sono volontarie, spinte dalla sola voglia di giustizia che, giorno per giorno, ora per ora, ascoltano e ascoltano, danno consigli, aiutano a cercare lavoro, in un percorso di fuoriuscita dalla violenza.
«Lo faccio di pancia – dice Francesca Rivieri, 35 anni, responsabile comunicazione di Duna – Non potevo più sopportare il maschilismo dilagante e sentivo di dover fare qualcosa». Reperibili 24 ore su 24, si buttano giù dal letto in caso di emergenza o passano le domeniche in questura per aiutare a redigere un verbale, perché solo loro sanno rapportarsi a una donna vittima di violenza. «Ci vuole estrema competenza, bisogna sapere come approcciarsi – spiega Elisa Forfori, 34 anni, responsabile legale del centro - perché se sbagliamo il primo approccio è probabile che la donna scappi e non si faccia più aiutare». Sono 29 attualmente quelle del centro Duna, tra avvocatesse, psicoterapeute, fisioterapiste e via dicendo. «Siamo tutte operatrici – spiega Ilaria Tarabella, antropologa di 37 anni, responsabile del centro –. Poi, nel caso le donna faccia richiesta di una figura professionale specifica, noi ci siamo. Io perché ne faccio parte? – aggiunge –. Una volta che conosci certi meccanismi non riesci a tirartene fuori».
«Sì, anch'io ho aperto all'improvviso gli occhi – racconta Annachiara Sarnelli, 30 anni – ho messo gli occhiali di genere». Contemporaneamente all'attività di “aiuto” le operatrici portano avanti anche un'intensa attività di “prevenzione”: cercano di educare, cambiare la cultura, far capire quanto tutti (donne e uomini) parliamo, agiamo, consumiamo da maschilisti senza saperlo. «Spot, trasmissioni televisive e linguaggio – spiega Francesca – sono le manifestazioni più evidenti della cultura maschilista. Dovremmo ad esempio iniziare a usare le parole al femminile, come ministra o sindaca. Ma tutto parte da piccoli. Basti guardare i giochi: in Italia c'è ancora la suddivisione dei giocattoli celesti per i bimbi e i “giocattolini” rosa per le bimbe. Si cresce credendo già di essere il sesso debole». Il percorso di coscienza parte dalle scuole. Le operatrici hanno incontrato studenti del territorio e continueranno a farlo per cercare di smontare tutti quegli stereotipi che portano a una qualsiasi forma di violenza sulle donne.
Melania Carnevali