di BARBARA STEFANELLI
Chi sono le ragazze italiane? Chi sono le ventenni e trentenni che in questo momento studiano, lavorano, progettano e costruiscono così il futuro del loro – il nostro – Paese?
Le tv, i giornali, i dibattiti di questi giorni sembrano proporci un’immagine unica. Ragazze carine, anzi spesso molto belle, che si somigliano tra loro e che usano il corpo con consapevolezza estrema: scambiano quello che hanno – e che possono offrire sul mercato libero delle risorse – per raggiungere un avanzamento economico e sociale. Ha fatto molto discutere l’ultimo saggio di Catherine Hakim, sociologa della London School of Economics, intitolato Il potere del capitale erotico . L’autrice sostiene che sarebbe assurdo negare alle giovani donne il diritto, quasi il dovere strategico, di sfruttare al massimo il proprio capitale estetico. Soprattutto se le giovani donne in questione sono sprovviste di altri mezzi: finanziari, intellettuali, di status sociale.
Recensendo il libro, lo scrittore Will Self ha citato una battuta tratta dalla serie tv ormai globale «The Simpsons». Lisa dice alla sua insegnante: «Essere belle non è importante»; la signorina Hoover risponde: «Stupidaggini, questo è quello che i genitori brutti dicono alle proprie figlie». Le ragazze delle intercettazioni sembrano aver imparato bene la lezione: il «capitale erotico» deve fruttare il massimo in quei pochi anni di pienezza che la natura – ora esasperata dalla chirurgia – concede loro. Sinora si è (quasi) sempre discusso solo di questo: se cioè le ragazze di Berlusconi, dall’Olgettina a Bari, siano figlie del femminismo o piuttosto una distorsione inquietante dell’emancipazione. Ma a questo punto la domanda più importante è davvero un’altra e chiede di superare quell’immagine unica, e ancora più quel pensiero unico, in cui continuamente ci imbattiamo.
Queste giovani donne, che ossessivamente scrutiamo e commentiamo, rappresentano la maggioranza delle ragazze italiane? O comunque, pur in minoranza, costituiscono un’avanguardia dietro la quale «le altre» vorrebbero mettersi in coda? La «sexeconomics» all’italiana è davvero un’espressione di modernità? La risposta è no. La modernità di tante giovani italiane sta altrove. Sta nelle università dove le studentesse ottengono risultati sempre migliori; sta nei curricula che vengono presentati per un’assunzione dove si sommano esperienze all’estero, volontariato, aggiornamento costante delle proprie abilità; sta nella creatività delle mamme blogger che sanno costruire dal basso nuove comunità, solidali, capaci di compensare in parte i vuoti del welfare; sta nell’ottimismo delle mamme single, che siano di ritorno o di andata; sta nell’energia delle ventenni pronte a partire per una città straniera forti solo di sé; sta in chi si impegna per i diritti delle persone, nelle associazioni, che sono un modo nuovo di fare politica; sta nelle giovani immigrate, le più aperte all’integrazione. Sta nelle storie «normali» di tantissime donne che ogni giorno provano a «tenere insieme» professione, famiglia, se stesse.
L’avanzamento personale e la mobilità sociale vengono cercate, certo, ma in un altro modo. In un Paese che ha una delle medie più basse di lavoro femminile retribuito (un risicato 48% rispetto a una media Ocse del 59) e dove nello stesso tempo il numero di bambini per donna è uno dei più bassi d’Europa (il 24% delle donne italiane nate a metà degli anni Sessanta non ha fatto figli rispetto al 10% delle francesi). È di questo che vogliamo parlare e scrivere. Di questo gap di modernità che l’Italia non ha risolto e non risolve ancora, nonostante gli appelli della Banca d’Italia a non sprecare il 50% dei propri talenti – perché le donne rappresentano più della metà della nostra popolazione. Questo non perché le donne siano migliori, ma perché le società dove le donne e gli uomini lavorano accanto – in uno scambio davvero liberato da «un pensiero unico» sulla femminilità – funzionano meglio e garantiscono un futuro a chi verrà. E c’è un’ultima cosa: nelle centomila intercettazioni le ragazze parlano e parlano e non è difficile cogliere un filo di malinconia, di abbruttimento, di disagio nell’inseguire il premio contrattato. Le vite delle nostre ragazze «normali» sono assai più avventurose.
dal Corriere della Sera – 18 settembre 2011